Francesco Teselli – Il signor Asterico racconta
Autobus.
Il sole splende alto nel cielo, con i suoi raggi che filtrano tra le nuvole come tanti coltelli assassini attraverso il ventre di una vittima innocente. Sto andando da Asterisco, per l’intervista d’aprile. Ho provato a telefonargli per avvertirlo, ma è inutile. Se dovessi trovarmi in punto di morte e Dio in persona, con tanto di barba bianca, mi dice “hai una sola telefonata a disposizione: in caso di risposta, continui a vivere; altrimenti, vieni via con me” … beh, sicuramente non sceglierei di chiamare Asterisco. La vita è complicata, ma meglio cercare di viverla il più possibile che dopo, chissà, va a finire ch’è pure peggio.
Io non rischierei.
Al terminal degli autobus s’incontrano persone che non vedrai mai più. In quell’attesa di pochi minuti, preoccupazioni e progetti di vita si toccano piano, come la carezza involontaria di due mani che si sfiorano. La telefonata al fidanzato della ragazza arrabbiata, la valigia grande dello studente che torna a casa, la sigaretta nervosa della signora stanca, piegata da una giornata di fatica. Dieci minuti, poi l’autobus arriva e addio per sempre. Forse, per questo si chiamano così, i terminal: è un’esperienza terminale.
Salgo, mi siedo vicino al finestrino per vedere le vite delle persone scorrermi davanti agli occhi, come capitava con quei vecchi rullini che i fotografi si srotolavano tra le mani, scorgendo volti in dissolvenza. Ripenso al mese scorso, a questa parabola che sto cercando di disegnare, insieme a quello stralunato di un Asterisco: silenzio – parola … e ora? Non lo so, stavolta chiedo a lui. Vediamo che mi propone.
Scendo, è la mia fermata. Mi aspetto di dover suonare alla sua porta per almeno una ventina di minuti, prima che si ricordi di essere sulla Terra e mi venga ad aprire. E invece, mi lascia senza parole. È lì, sotto la pensilina. Lo guardo come guarderei un alieno, probabilmente. Se ne accorge e mi fa ti stavo aspettando. Rimango ancora più stupefatto e allora mi prende sotto braccio e mi dice che ha ricevuto la telefonata. Non ce l’ha fatta in tempo a rispondermi ma la segreteria ha registrato il mio numero e allora ha capito che ero io.
“Mi sono ricordato che vieni in autobus e allora ti ho aspettato qui.”
Wow.
“E come mai questa novità?”
“Così, mi piacciono gli autobus e adoro aspettare qui. Alla fermata tante storie s’incrociano. Agli incroci tante storie si fermano, come mendicanti, a chiedere di essere raccontate. Persone che s’incontrano per non ritrovarsi più, frammenti di vite. Brandelli di esperienze. La signora che ti racconta vita, morte e miracoli e il ragazzo scuro, tutto cappuccio e cuffioni, che non ti permette neanche di sfiorarla, la soglia delle sue odissee personali. Sguardi, attese, progetti distratti e malinconie passeggere. Una frase sfocata sul vetro della pensilina, documento di un amore trascorso o promessa in parole di un amore da respirare ancora, come in pillole di ossigeno. Macchia di caffè sulla tovaglia bianca il sorriso che s’allarga sulle labbra di una ragazza, tra i denti che si stringono come due amanti in un abbraccio. Condividiamo un viaggio, tra le ambizioni dei nostri chilometri e le speranze che fanno il nido in mezzo ai sogni, persi e opachi come spettri in controluce nel riflesso dei finestrini dell’autobus. Poi, ognuno per la sua strada. Magari tra un viaggio e l’altro, la prossima volta decideremo d’incontrarci ancora. Stavolta sarà una scelta, e non i tarocchi del destino, a combinare le nostre vite come la trama della stoffa che s’intreccia sotto le mani di una sarta. Un po’ come succede a teatro, insomma. No? A pensarci bene, le somiglianze sono molte. Passeggeri inaspettati, gli attori e il loro pubblico. La fermata è sul parquet della platea, il viaggio sulle tavole del palcoscenico.”
Praticamente, senza volerlo, mi ha già aperto un varco spazio-temporale nell’immaginazione. Ecco di cosa parleremo. Sotto gli occhi, il prossimo tassello: silenzio – parola – autobus.
TENTATIVO DI SENSAZIONE N°3 OVVERO TUTTA LA SOCIETÀ TRA I SEDILI DELL’AUTOBUS
“Che ne pensi se prendessimo l’autobus insieme?”
Oggi è particolarmente propositivo.
“Va bene. L’intervista la facciamo a bordo?”
“A bordo.”
Gli riporto, come l’altra volta, le parole delle persone che gli hanno scritto le loro sensazioni. Rimane particolarmente colpito dalle righe di Laura. Il mese scorso si discuteva sul concetto di “parola” e Laura dice ho passato gran parte della mia vita a dirle e a scriverle, le parole. Parole intrise di tutta la malinconia che il tempo porta con sé, di ricordi, di paura, d’amore. La parola per me è un verso libero che corre sul sentiero della vita: a volte sfida, altre ti viene incontro. La parola più bella, il primo vagito di mio figlio. Odore di carezze appena nate.
Sul pullman, dietro di noi, due signori parlano del tempo. La siccità d’estate, le frane quando piove, il freddo d’inverno. Ci solleva un po’ da qualsiasi responsabilità, parlare del tempo. È qualcosa che accade nonostante noi, malgrado le tempeste o i mari calmi della nostra anima. Asterisco mi guarda, ha voglia di parlare.
“Stamattina ho fatto caso a un fatto. C’erano dei ragazzi di colore. Da un po’ mi sono accorto che hanno un modo tutto loro di vestire: abbinano colori che noi occidentali non metteremmo mai insieme; ma il punto è che vestono sempre indossando colori molto vivaci, allegri. L’azzurro, il giallo, il rosso. Vivono vite difficili, ma vestono colorato. Noi invece, spesso senza troppi ostacoli – fatta eccezione per la nostra ingiustificata malinconia – giochiamo a fare i “gotici” (io decisamente mi annovero tra questi, considerando che il colore più simpatico che c’è nel mio armadio è una sfumatura di grigio scuro). Li ammiro. Ammiro il loro modo di affrontare la vita. Forse, è solo per questo che dovremmo chiamarli di colore.”
“Interessante. A proposito di cose interessanti, che ne dici di parlarmi di …”
“Teatro, dici? In realtà ci stavo arrivando.”
“Ah, va bene. Fai con comodo.”
Gli dico che l’idea di parlare proprio dell’autobus sull’autobus è una cosa che mi solletica parecchio. Per fortuna, è d’accordo con me.
“In realtà, c’avevo pensato anch’io. Alla fine, dopo il silenzio l’uomo impara a parlare e quando capisce come mettere insieme le parole nascono le società.”
“Continua.”
“Noi, su questo catorcio che cammina, siamo parte di un microcosmo: di una società vera e propria. C’è una gerarchia (autista e passeggeri), ci sono delle leggi (fare il biglietto, stare seduti ognuno al proprio posto) e anche una forza armata il cui compito è di far rispettare le regole (il controllore, armato di multe). C’è uno spettacolo che parla più o meno di questo, approfondendo un argomento ancora più interessante.”
“E sarebbe? Maledetta suspense.”
“L’autobus di Rosa, tratto dall’omonimo racconto di Fabrizio Silei, regia di Italo Dall’Orto. La storia è ambientata ai giorni nostri, nell’America di Obama, e narra le vicende di un nonno afroamericano che porta il proprio nipotino a visitare un museo che espone vecchi automezzi. Con frastornata incredulità, l’anziano signore riconosce un autobus degli anni ’50, sul quale lui stesso viaggiò. Nel tempo, non ha mai dimenticato quello che successe quel giorno: salì un uomo bianco che pretese di sedersi al posto di una signora di colore, Rosa. All’epoca, purtroppo, era una cosa abbastanza ricorrente. Rosa, però, si rifiutò di alzarsi.
Società e razzismo.
La messa in scena teatrale ruota intorno ad un’immagine tridimensionale dell’autobus, davanti alla quale si svolge il dialogo tra nonno e nipote, entrambi interpretati da attori di colore. Sullo schermo scorrono documenti visivi storici e disegni tratti dalle illustrazioni del personaggio di A. C. Querello del libro di Fabrizio Silei. Ad accompagnarli, brani di musica afroamericana dell’epoca, eseguiti dal vivo, per sottolineare gli stacchi e i flashback dell’azione.
Rosa Parks (nata Rosa Louise McCauley, 1913-2005) divenne famosa per essersi rifiutata, nel 1955 a Montgomery (Alabama) di cedere il posto su un autobus a un uomo bianco. Come atto di protesta a seguito del suo arresto e della sua incarcerazione, venne intrapreso un massiccio boicottaggio da parte dei mezzi pubblici della città che durò 381 giorni mentre altre azioni, spesso violente, ebbero luogo in diverse zone degli Stati Uniti. Martin Luther King descrisse l’episodio come l’espressione individuale di una bramosia infinita di dignità umana e libertà aggiungendo che Rosa rimase seduta in nome dei soprusi accumulati giorno dopo giorno e della sconfinata aspirazione delle generazioni future.”
Si ferma, mi lancia un cenno finto indifferente come a dire guarda, senza farti vedere, ma guarda là. Un ragazzo con in braccio un cane bellissimo, un incrocio tra un labrador e Dorian Gray per quant’era bello, sale sull’autobus. Una ragazza lo guarda, inorridita. Il cane dorme, beato. È talmente calmo che sembra Gandhi col pelo.
“Che fai, sali col cane?” fa la ragazza, acidella.
“E stai tu, vuoi vedere ch’è un problema il cane?” risponde il ragazzo, al volo. All’istante, penso che ho un nuovo idolo. Ed è sul mio stesso autobus, a quanto pare.
“Hai visto? Passano gli anni, ma gli esseri umani non cambieranno mai. Possono cambiare bersagli, al massimo. Ma alla fine resteranno sempre uguali. Ugualmente cattivi.”
“Tu non fai parte di questa categoria? Non sei umano? Sei un marziano?”
“Lo spero vivamente. E soprattutto, non lo escludo.”
Scendiamo. Ci siamo fatti praticamente il giro della città e siamo tornati alla stessa fermata. Stiamo per salutarci, ma dall’altra parte della strada arriva una signora. È minuta, tutta imbacuccata. Attacca a parlare. Ha un lieve accento siciliano che non tarda ad esplodere in un serratissimo, meraviglioso dialetto incomprensibile. Tempo due minuti – secondi, probabilmente – e ci racconta la sua vita. Vita fatta di avventure leggendariamente quotidiane, di piccole cose. È una guerriera in miniatura, fa la badante e ha un marito poliziotto che ha insistito per prendere casa nel suo paesino d’origine. Ha dovuto dire addio alle sue arance, quindi; al profumo del mare che la svegliava al mattino, con il suo aroma di sale fin dentro le narici.
“Io tutte le sere lo prendo, questo pullman. È l’ultimo e sempre sola sto. L’autista, Marco si chiama. Una volta scesi di casa alle nove meno cinque e già era passato. Per pazza mi feci afferrare! Alle nove c’è scritto? E alle nove devi passare! Da allora, quando arriva alla sera e io ancora non sono scesa, mi suona! Pi-pi, pi-pi col clacsòn e io scendo.”
Che immagine spettacolare. Pagherei per vederla. Immagino il povero Marco che arriva sotto casa della signora, non la trova ed è costretto a bussare.
“Arrivo, arrivo! grido dal balcone, mentre m’infilo il cappotto e prendo al volo la sciarpa.”
Ci racconta che nel paese c’è chi pensa che siano amanti. Un amore clandestino, che si consuma nel viaggio. Come una piccola fiamma di carta che s’incendia nel giro di un minuto, troppo veloce per restare sveglia tutta la notte.
“Visto? Conveniva farla così, quest’intervista. In viaggio.”
Beh, cos’altro aggiungere? La parola chiave, l’avrete capito, stavolta è AUTOBUS.
Me ne torno a casa, con qualche sensazione in più in tasca e una storia da raccontare.
Francesco Teselli
Bellissima la considerazione sia sul modo di vestire di questi giovani sempre sorridenti nonostante la malinconia che si legge nei loro occhi, sia sull’amore clandestino della signora alla Fermata e l’autista, mi sembra di aver vissuto con te questo incontro!
Complimenti!
L’autobus mi ricorda di quando ero bambina.Lo prendevo con i miei genitori quando dovevamo andare a casa di mia nonna paterna. Lei era malata e passava la maggior parte del giorno a letto. Un giorno all’improvviso scoppio un temporale mentre ero a casa sua. E lei ebbe la forza di alzarsi dal letto e mise la sua testa nel comodino,( quelli antichi non avevano tiretti,ma ante)e la tenne fino a quando non sentì più i tuoni. Io rimasi stupita,e al ritorno a casa chiesi a mio padre il motivo. E lui mi disse che ogni volta che mia nonna sentiva il rumore del temporale,riviveva la guerra,perché la visse :quindi cercava rifugio.Povera nonna,come avrà sofferto. Anche per me fu una fermata importante quel giorno e se non avessi preso l’autobus, io non avrei mai saputo della sofferenza di mia nonna.
Autobus come viaggio, anche dentro se stessi! Perché no? Molto bella questa rubrica, la seguo sempre!