Sabrina Crivelli – La città del futuro da Metropolis a Blade Runner e nei loro successori
Prologo
Sospeso tra realtà e finzione, sin dalle proprie origini il cinema ha sovente creato mondi di fantasia o sublimato la realtà. Inoltre, se è sempre presente un qualche grado di falsificazione, ancor più l’emisfero dei sensi è stato liberamente rielaborato nelle tipologie dell’irrealtà, primi tra tutti i film di fantascienza, in cui vengono messi in scena veri e propri universi alternativi la cui ideazione non ha mai potuto basarsi sulla mera mimesi del reale. Frutto invece di una un lungo processo di elaborazione, tali scenari sono stati gradualmente elaborati sin dal periodo del muto, determinando un insieme di convenzioni fatte di luoghi, personaggi, creature, tecnologie ed escamotage narrativi, che hanno poi lasciato una traccia duratura nella memoria collettiva. Più nello specifico, uno dei più iconici panorami al centro del cinema sci-fi è senza dubbio la città del futuro, di cui costituisce un innegabile prototipo Metropolis di Fritz Lang. La pellicola del 1927 è difatti ambientata in un inedito e immaginifico scenario urbano, rappresentando così un riferimento fondamentale per tutta la cinematografia successiva; eppure il suo complessissimo apparato visivo non è nato dal nulla, ma è a sua volta espressione della cultura dell’epoca e precedente, poi rielaborata nel nuovo medium attraverso l’inventivo apporto del regista, della sceneggiatrice, Thea von Harbou, degli scenografi, degli effettisti (e così via). Pochi sono stati infine i titoli con eguale impatto sulla definizione dell’immagine della urbe fantascientifica, tra questi primeggia Blade Runner di Ridley Scott (1982), il cui debito verso il film langhiano è palese e che costituisce un inevitabile termine di paragone col suddetto e il principio di un duraturo insieme di derivazioni che arriva fino ai giorni nostri.
Alle origini della Metropolis futurista di Fritz Lang
Pioniere e al contempo erede di una preesistente tradizione, Metropolis, rappresenta dunque non solo una fonte essenziale, ma raccoglie anche un insieme di poliedriche suggestioni, desunte dalle arti figurative, dall’architettura, dalla letteratura, dal teatro e, più nel complesso, da tutte le altre forme d’espressione, da cui origina uno scenario urbano incredibilmente stratificato. Tuttavia, tale variegato bacino viene poi declinato secondo uno schema duale, replicato a diversi gradi, e sviluppato sull’opposizione tra l’emisfero superiore, dominato dal lussuoso skyline, e quello sotterraneo, destinato ai dormitori dei lavoratori e all’apparato produttivo. L’antitesi tra i due livelli, sociali e urbani, è anzitutto l’epicentro di tutta la narrazione, in cui dalla profonda iniquità della rigida divisione per caste scaturisce un violento scontro tra quelli che vengono definiti (secondo una metafora classicista) il cervello, ovvero il ceto dominante diretto Joh Fredersen (Alfred Abel), e le braccia, ossia il proletariato la cui rivolta è indotta dal robot Maria, doppio meccanico dell’angelicata profetessa (Brigitte Helm) di cui s’innamora il figlio dell’imprenditore-dittatore Freder Fredersen (Gustav Fröhlich). La finzione filmica è però anche profondamente radicata nella contemporaneità e nella contrapposizione inscenata sul grande schermo sono celati in realtà gli attriti latenti nella Repubblica di Weimar degli anni venti del Novecento.
Non solo, il medesimo contrasto si estende all’estetica e alle fonti visive riferibili a ciascuna sfera cittadina, superna e sotterranea, che sono tra loro profondamente dissimili e traducono immediatamente il loro intrinseco valore allegorico. Ad aver ispirato la parte superiore, nella fattispecie lo skyline, sono in primis i grattacieli di New York, come dichiarato da Lang stesso in un’intervista ai «Cahiers du Cinéma» del 1965. Alla base della complessa stratificazione architettonica, però, non c’è soltanto una città realmente esistente, ma un’intera silloge di utopie urbane, elaborate nel corso del primo ventennio del XX secolo e da cui fu influenzato indubbiamente Erich Kettelhut, scenografo a cui si deve in gran parte dell’ideazione del panorama urbano (ricostruito ricorrendo a dettagliate miniature degli edifici e al celebre effetto Schüfftan). In particolare, un ruolo centrale hanno giocato i progetti per le “visioni” della New York del futuro disegnate tra il 1900 e il 1911 da Luis Biedermann, Harry M. Pettit, Harvey Wiley Corbett e Richard Rummell. Inoltre, un secondo prototipo essenziale è la Città nuova di Antonio Sant’Elia (1914), che con la sfavillante metropoli langhiana ha molteplici analogie sia in termini estetici (si vedano i disegni esposti nella mostra di Nuove Tendenze tenuta nel 1914 presso la sede Famiglia Artistica di Milano) che teorici (com’è possibile approfondire all’interno del testo senza titolo presente nel catalogo, denominato nel 1956 il Messaggio da Giovanni Bernasconi e inserito nel Manifesto L’Architettura futurista del 1914). Di essi vengono ripresi, non solo la mescolanza tra funzionalismo utopistico ed estetica meccanicista, ma anche la configurazione su più strati delle strade e delle passerelle aeree sospese tra gli edifici, nonché la disposizione a più livelli che esprimeva invero l’ordine sociale vigente.
Allo stesso modo, i dormitori sotterranei rimandano a un altro insieme di modelli novecenteschi: i progetti e gli interventi realizzati nelle capitali tedesche e a Vienna. Frutto della stringente carenza abitativa, nel Primo Dopoguerra era stata realizzata un’edilizia su larga scala in tempi ridottissimi, che combinava standardizzazione produttiva ed evoluzione della tecnica industriale. Esempio perfetto erano le Siedelungen weimeriane, il cui capostipite era la Zeilenbau, costruzione a schiera ideata nel 1923 da Otto Haesler, poi rielaborata nella ricostruzione delle capitali tedesche e a Vienna all’incirca nel medesimo periodo. Da un lato, c’erano allora le unità abitative costruite in ambito germanico tra il 1925 e il 1933, quelle di Ernst May a Francoforte, quelle berlinesi progettate da Bruno Taut a Berlino-Zehlendorf e, in collaborazione con Martin Wagner, a Berlin-Britz e, seppure in parte differente, il complesso di Dessau-Törten ad opera di Walter Gropius e dai membri del Bauhaus. Dall’altro, erano richiamate le similari Gemeindebauten di Hubert Gessner costruite nella Vienna Rossa, ovvero il Metzleinstaler Hof, il Reumannhof e il Karl-Seitz-Hof. Tuttavia, ai progetti originari era conferito nella pellicola un valore antitetico: non più luogo ideale di integrazione e coesistenza nato per rispondere in modo efficiente alle necessità collettive, nelle scene filmiche diveniva grigio e deprimente panorama di segregazione delle classi sfruttate. In ultimo, dietro il volto avveniristico si nasconde un côté magico, una forza oscura che anima la Hertzmachine, il fulcro dell’energia della città, la quale richiede uno smodato sforzo da parte della manodopera per essere messa in moto. Tale ambigua duplicità è perfettamente incarnata dallo scienziato – alchimista Rotwang (Rudolf Klein-Rogge), che abitava un singolare e sinistro edificio gotico (retaggio di un’antica cultura) nel cuore di Metropolis, e che era responsabile della creazione dell’automa Maria che diede inizio alla rivolta.
Verso Blade Runner e oltre
Considerato un modello assoluto per la cinematografia fantascientifica, Metropolis è stato un punto di riferimento per i successivi registi che si sono cimentati nella raffigurazione di città al di là da venire. Molteplici sono state infatti le pellicole che dichiaratamente o meno hanno ripreso le sue visionarie architetture, ne sono un esempio la Everytown degli anni 2000 al centro dell’ultima parte di La vita futura (Things to Come, 1936) di William Cameron Menzies, la capitale di una lontana galassia in cui è ambientato Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution, 1965) di Jean-Luc Godard, fino a insospettabili filiazioni quali la Loudon secentesca dove è collocato I diavoli (The Devils, 1971) di Ken Russell (il regista voleva discostarsi dalla solita estetica medioevaleggiante, così il suo scenografo, Derek Jarman, optò per una fonte d’ispirazione ben più modernista). Diversi sono stati dunque i film che dagli anni trenta alla fine degli anni settanta hanno replicato nelle più svariate declinazioni l’urbe futurista di matrice langhiana, ma a determinare definitivamente la sua diffusione nell’immaginario collettivo fu senza dubbio Blade Runner di Ridley Scott. Il film tratto da Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (anche uscito con il titolo Il cacciatore di androidi, in originale Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968) di Philip K. Dick, nonostante il suo iniziale insuccesso di pubblico e di critica, fu difatti poi gradualmente rivalutato, soprattutto grazie al mercato home video, divenne un vero e proprio cult noto pressoché a chiunque ed entrò a far parte dell’immaginario collettivo.
Molte sono le affinità tra il panorama urbano mostrato nel film del 1927 e quello nel film sci-fi del 1982, seppur l’estetica originaria sia declinata in modo assai diverso nella decadente Los Angeles del 2019. Anche nelle riprese di quest’ultimo, va sottolineato, gli esterni non furono realizzati in CGI, ma ricorrendo a modellini a prospettiva forzata e a una scenografia ricostruita ad hoc, ossia il set della strada. Dello skyline langhiano sono ripresi quindi i grattacieli sorvolati da navicelle, le strutture a gradoni di ispirazione futurista per la piramide della Tyrell Corporation, nonché la Nuova Torre di Babele in cui risiedeva Joh Fredersen per la pianta ottagonale vista dall’alto della centrale di polizia. A confermare il debito, già di per sé palese, è il supervisore degli effetti speciali, David Dryer, che non solo ne riscontrò le affinità, ma raccontò anche a Paul M. Sammon (in Future Noir: The Making of Blade Runner, ed. Dey Street Books, 1996) di aver utilizzato dei fotogrammi di Metropolis per allineare alcune inquadrature degli edifici in miniatura di Blade Runner. Tuttavia l’apparato visivo originario muta decisamente di segno nella sua nuova collocazione: i palazzi non sono più un utopistico e lussuoso scenario, ma perlopiù relitti fatiscenti che sormontano strade sporche e gremite e che sono pervasi da giganteschi schermi pubblicitari di ispirazione asiatica. In essi enormi immagini animate, che secondo Dryer comparivano sulle superfici degli edifici solo la notte, erano state ispirate al regista dai mega schermi DimondVision presenti nei maggiori stadi sportivi americani. Inoltre, l’atmosfera luminosa e idilliaca, che vigeva nella sfera superiore della urbe langhiana, è sostituita da un incombente grigiore e da una pioggia battente causata dall’inquinamento, mutando completamente la sensazione che ne deriva da realtà paradisiaca destinata a pochi eletti a inferno sovrappopolato e ormai invivibile. Ad elaborare il nuovo scenario è proprio Scott, che amalgamò un variegato repertorio tratto da albi illustrati, dipinti e panorami reali, sottoposti poi a deformazione distopista. Secondo quanto raccontato dal regista stesso a «The American Cinematographer» del luglio 1982, la megalopoli nasceva infatti dalla commistione del celebre quadro Edward Hopper Nighthawks, che immediatamente suscitava un senso di desolazione e inquietudine, dai paesaggi allucinati contenuti nella rivista di fantascienza «Métal Hurlant», in particolare le tavole di Moebius, infine l’impressione che trasmetteva New York in una pessima giornata, durante uno sciopero dei netturbini o delle metro, oppure un blackout («Cinefex», luglio 1982). Tali spunti erano però destinati a creare qualcosa di del tutto originale e insieme intramontabile.
In Metropolis come in Blade Runner, allora, permane una ansiogena prefigurazione di un futuro più o meno prossimo ancorato ad aspetti esperibili nel presente, ma è assai dissimile la declinazione di tali distopie. In uno, le inquietudini connesse all’avvenire si concretizzano nell’esacerbazione dell’iniquità sociale, che il capitalismo vigente nella Repubblica di Weimer prospettava, ma che ancora lasciava spazio ad un possibile riscatto, come il finale lasciava intendere. Nell’altro, al contrario, il globo terracqueo ormai inospitale poche speranze concedeva ai superstiti rimasti e non solo l’inuguaglianza di classe, ma un orizzonte ben più sconfortante aspettava l’intera umanità (o quella che non era fuggita sulle colonie extra-terrestri). Diverso era d’altronde il contesto storico e culturale che da cui erano state generate le due configurazioni di realtà, l’una legata ancora, seppur con qualche remora, all’ottimismo modernista primonovecentesco, l’altra ormai nichilista anticipazione di un domani post-apocalittico scaturito dalla Guerra Fredda, dallo spauracchio atomico, dal timore di sovraffollamento ed esaurimento delle risorse.
Nel corso degli anni ottanta tale seconda e più cupa rappresentazione ispirò un nutrito filone di pellicole fantascientifiche, che proiettavano paranoie legate all’oggi in fosche premonizioni del domani. Così, la minaccia costituita dai replicanti si esacerbava nel dominio delle macchine al centro di Terminator (1984) di James Cameron, o assumeva un nuovo volto nella Detroit in preda al caos in RoboCop (1987) di Paul Verhoeven, mentre il concept scottiano veniva declinato in una grottesca e iniqua dittatura della burocrazia in Brazil (1985) di Terry Gilliam (che molto doveva anche all’Orwelliano 1984). Nelle decadi successive si susseguirono poi rimandi tematici ed estetici allo stile dark – futuristico di Blade Runner in molteplici titoli, quali Atto di forza (Total Recall, 1990) di Paul Verhoeven (peraltro tratto anch’esso da un racconto di Dick intitolato Ricordiamo per voi), Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow, Il quinto elemento (Le cinquième élément, 1997) di Luc Besson, Dark City (1998) di Alex Proyas (che a sua volta ebbe un non indifferente influsso sulla trilogia di Matrix), i Ghost in the Shell di Mamoru Oshii e moltissimi altri, tutti sempre accomunati dalla medesima angoscia di fondo. In ultimo, a di raccogliere l’oneroso testimone a distanza di più di un trentennio è nel 2017 Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve, che vede anche il ritorno in scena di Harrison Ford, protagonista al fianco di Ryan Gosling. Strettamente connesso sia sul piano formale che contenutistico con il cult di Scott, il seguito ne riprende lo scenario cittadino, anche stavolta in gran parte ricostruito in dettagliatissime miniature (create dalla Weta Workshop), rimandando però così non solo al suo immediato predecessore, ma in maniera mediata anche a Metropolis, che rappresenta in fondo un archetipo che ha determinato nell’immaginario comune l’idea di città del futuro.
Sabrina Crivelli
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