Fabio Marangoni – Contamination
C’era una volta, tanto tempo fa, in un paese lontano… la fantascienza italiana.
Ma non è una favola a lieto fine e la morale non c’è, perché parliamo di cinema e i personaggi di questa storia sono scomparsi, trasformati o mutati. Quello che non è cambiato è il film di cui vi voglio parlare e la passione che ha spinto il suo inventore allora come oggi.
Se negli anni Sessanta il cinema di fantascienza nostrano era popolare con titoli come “Terrore nello spazio” (1965) di Mario Bava e alcuni di Antonio Margheriti (sui cartelloni meglio noto come Antony Dawson), nei Settanta il filone si è affievolito, sono cambiati i gusti, i generi in voga, e a cavallo con gli Ottanta la fantascienza si è mescolata con altro, generando pellicole distopiche o post-apocalittiche, spesso poverissime di mezzi e anche di idee, rifacimenti palesi di tre capostipiti: Interceptor (1979, di George Miller), 1997 Fuga da New York (1981, di John Carpenter) e Terminator (1984, di James Cameron).
Il protagonista della nostra storia non si è ispirato a nessuno dei tre, bensì all’ultimo grande titolo di fantascienza (e horror) del Novecento: Alien (1979, di Ridley Scott) per stessa ammissione del regista che lo vide al cinema e decise di farne un “seguito”. Sto parlando di “Contamination” (1980) noto all’estero come “Alien Contamination” e “Alien arriva sulla Terra” (il vero titolo scelto dal regista), diretto da Lewis Coates, ovvero l’italianissimo Luigi Cozzi.
La trama
La “Caribbean Lady”, una grossa nave da carico, fa rotta dritta verso la baia di New York, ma non risponde alla capitaneria di porto: sulla nave non sembra esserci anima viva, tanto che la si mette in quarantena in attesa dell’ispezione delle autorità.
Una squadra sanitaria munita di tute anticontaminazione sale a bordo e quello che trova nella stiva porterà alla morte il gruppo tranne un poliziotto. Sarà lui a riferire di strane casse e di un ancora più strano “uovo grande come un pallone da football” al glaciale colonnello dei servizi Stella Holmes che prenderà in carico la faccenda.
Ma non basta: qualcuno nel Pentagono sapeva: in un dossier riguardante una spedizione su Marte, gli astronauti di ritorno riferirono di aver visto le stesse uova… non resta che risalire a chi ha spedito quel carico e scoprire perché.
Luigi Cozzi, classe 1947, scrittore, sceneggiatore e regista, alla soglia del 1980 ci arriva con un curriculum ricco di esperienze: l’esordio nel 1969 con la pellicola fantascientifica sperimentale “Il tunnel sotto il mondo” ispirato da un racconto di Frederik Pohl; scrive il soggetto di “Quattro mosche di velluto grigio” di Dario Argento di cui diventa amico e collaboratore; nel ’75 dirige il giallo “L’assassino è costretto a uccidere ancora”, il sentimentale “Dedicato a una stella” (che lui considera la sua opera migliore), ma soprattutto nel ’78 “Starcrash – Scontri stellari oltre la terza dimensione”, nato sull’onda di “Star Wars” (Guerre stellari) che è il suo film più conosciuto anche all’estero, nonché di successo commerciale, tanto da portare a un sequel (che non farà lui).
La fantascienza è la sua passione, in particolare quella americana degli Anni Cinquanta, genere inviso ai produttori nostrani, i quali però, dopo il successo mondiale di “Alien” non possono non cavalcare l’onda lunga con epigoni. Ed è l’occasione del Nostro, che come tanti resta colpito dal film di Ridley Scott al cinema e decide di scrivere una ipotetica continuazione.
Trovato un finanziatore, grazie all’esperienza maturata e consapevole di non avere lontanamente i mezzi produttivi d’oltreoceano, scrive una storia pensata per essere messa in scena in una città americana – New York – ma con location più a portata di mano, raccordate dal montaggio di riprese nella metropoli e in Colombia, come quando i protagonisti si avventurano alla ricerca della fabbrica di caffè.
Il film infatti immagina una situazione dove è l’alieno a scendere sul nostro pianeta: la classica “invasione” ma più subdola, attraverso le “uova” e non solo. Nonostante nella suggestiva locandina ci sia l’immagine di un astronauta terrorizzato, le sequenze marziane si limitano al ricordo dei due astronauti e al primo incontro con le uova.
La sceneggiatura presenta qualche somiglianza con la pellicola uscita nelle sale pochi mesi prima: “Zombi 2”, diretta da Lucio Fulci. A partire dall’incipit, dove una nave arriva nel porto senza apparente traccia dell’equipaggio, proprio come nell’altra pellicola una barchetta a vela veniva intercettata dalla guardia costiera perché non rispondeva alla capitaneria. In entrambi i casi così ha inizio il contagio nella metropoli e i primi a subirlo sono coloro chiamati a controllare l’accaduto; d’altronde è un espediente che risale a un centinaio di anni fa: Bram Stoker nel suo celebre romanzo “Dracula” ci narra dell’arrivo del Conte in Inghilterra proprio attraverso una nave fantasma. Altra analogia è lo spostamento dell’azione da New York a una regione esotica, più avventurosa: là era l’isola caraibica, qui è la Colombia; terza somiglianza è la presenza di un attore in comune con il film di Fulci: per stessa ammissione del regista Cozzi, gli uffici casting erano nello stesso palazzo e la produzione scelse quel nome visto l’enorme successo che “Zombi 2” stava ottenendo negli Stati Uniti.
E veniamo appunto al cast: i protagonisti sono principalmente tre, Ian McCulloch nel ruolo di Ian Hubbard, uno dei due astronauti tornati da Marte e finito in disgrazia (l’attore presente anche in “Zombi 2”), Marino Masè che è il sergente di polizia Tony Arras e Louise Marleau nei panni dell’algido colonnello Stella Holmes, una sorta di agente Scully ante litteram, mentre la coppia diabolica è composta da Siegfried Rauch (Hamilton) e Gisela Hahn (Perla de la Cruz, sua moglie).
Da notare il nome scelto per il principale ruolo femminile: Stella Holmes, che ricorda la Stella Star protagonista del precedente “Scontri stellari oltre la terza dimensione”. Anni dopo lo ritroveremo in un fumetto edito proprio da Luigi Cozzi, “Profondo Rosso”, con al suo interno la striscia “Le avventure di Stella Holmes”.
La colonna sonora è composta nientemeno che dai Goblin, all’epoca lanciati a livello mondiale proprio grazie alle musiche per film di suspense, che qui sperimentano un suono ancora diverso rispetto a quanto sentito nei film di Dario Argento perché nel frattempo anche la formazione era cambiata. Così abbiamo sonorità meno rock e più d’atmosfera, “fantascientifiche” giocate tra sintetizzatori e basso.
Tuttavia i motivi per cui il pubblico ricorda un film di puro intrattenimento come “Contamination” sono gli effetti speciali, le sequenze dello scontro con l’alieno, la sua scoperta, le mutazioni e tutto quanto concerne l’aspetto più spettacolare. Il Nostro non delude: conosce bene la scuola di Mario Bava dove l’arte dell’arrangiarsi e la creatività sopperiscono alla mancanza di mezzi, e ci regala momenti di “gore” convincenti.
In primis le uova: sono l’elemento d’unione immaginario col film di Scott e per realizzarle si serve di semplici palloncini dipinti, coadiuvato dall’effettista Giovanni Corridori e dall’esperto scenografo Massimo Antonello Geleng. La distesa di baccelli fa la sua figura nella caverna marziana, mentre per il singolo elemento, quando ad esempio esplode in faccia ai malcapitati nella stiva, si serve di silicone e di una luce pulsante che simula una sorta di battito cardiaco. Ma la cosa letteralmente esplosiva sono i corpi che saltano in aria al contato della bava che fuoriesce dalle uova; per rendere l’effetto crea una doppia pancia opportunamente riempita di frattaglie e sangue animali che poi tramite aria compressa viene fatta scoppiare in faccia allo spettatore!
Dulcis in fundo, la comparsa della creatura che partorisce le uova, forse la soluzione tecnica meno convincente in quanto il “ciclope” si rivela un po’ statico per stessa ammissione del regista, che però fa del suo meglio per non farlo pesare troppo, nonostante la scena preveda una sorta di ipnosi che rende schiavi gli umani.
Da domani non guarderete più un uovo come prima… Scherzi a parte, “Contamination” è un coraggioso esempio di fanta-horror, sostanzialmente ben riuscito e godibile. Considerato il budget e le sole cinque settimane di lavorazione sfido a fare di meglio.
Nota 1: per la stesura di questa recensione, oltre ad aver visto il film (giusto ribadirlo), ho consultato Wikipedia ma, in particolare, questa intervista: https://www.youtube.com/watch?v=8DEq08zRVjs
Nota 2: gli apocrifi italiani di “Alien” sono (almeno) altri due: da ricordare, il famigerato “Alien 2 sulla Terra” (1980) di Ciro Ippolito e il poco noto “Alien degli abissi” (1989) di Antonio Margheriti. Chissà, forse un giorno ne scriverò uno anch’io (è una minaccia).
Buona frittatona con le zucchine e alla prossima!
“ Noodles, cos’hai fatto in tutti questi anni?”
“ Sono andato a letto presto.”
C’era una volta in America.
Fabio Marangoni
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