Gordiano Lupi – Cesare Pavese, il vizio assurdo e il mestiere di vivere
Non ero un uomo da biografie e infatti ho lasciato solo pochi libri, certamente il meglio, ché io sono stato una vigna, ma con dentro troppo letame. La mia biografia l’ha scritta Davide, uno dei pochi amici che ho avuto, al quale confidavo tutto, negli ultimi anni, lui lo sapeva di questo mio vizio assurdo che covavo dentro fin dalla nascita, lui lo sapeva che prima o poi sarebbe venuto fuori e mi avrebbe ucciso. Ho tradito il compito di vivere, certo, ma Davide si è preso quello di assolvermi dal tradimento, grazie all’amicizia e al sentire umano che ci lega, ché soltanto lui sapeva quanto fossi rimasto contadino, pur nel mio vivere cittadino e come con la mente e con la penna fossi così spesso nella mia Santo Stefano Belbo, nelle Langhe, in quella terra concimata, in quelle vigne così care alla mia vita. E nei miei libri c’è il meglio di me, quando si scrive soltanto quello vien fuori, restano dentro di noi l’egoismo e il tradimento, l’invidia, la cattiveria, l’intimo pensiero che nessuno conosce. Non mi son confidato mai a nessuno, ché non appena un amico mi entrava troppo dentro l’abbandonavo, forse soltanto Davide ha saputo certe cose insondabili della mia vita, cose che sarebbe meglio non sapere, ché uno scrittore è i suoi libri, non altro, non è un uomo come tutti, non andrebbe conosciuto. In vita mia ho praticato gli abbandoni, preti intorno non ne ho mai voluti, amici ne ho cacciati molti e donne troppo materne, troppo buone, tu sai quante ne ho lasciate, ché io cercavo sofferenza, dolore, inganno e disamore. Uomo complesso non sono come dicono molti, ma composto di tante parti, eclettico, uomo che non si presta al biografo con facile impianto, ma che dev’essere scavato e indagato con impietoso bisturi tagliante. Amico mio, non so come tu abbia fatto a scriverlo quel vizio assurdo, forse sei stato troppo clemente con la mia vita, i miei difetti e i disinganni, forse ti sei fatto trasportare dall’amore. Ricordo una passeggiata con Davide, a Torino, tra piazza Statuto e corso Garibaldi, il mio sudore bagnava gli occhiali e in bocca la fedele pipa spenta, ma parlavo soltanto io, lui pareva non capire. E quando lo rividi, nel 1950, avevo appena vinto lo Strega, ero a Milano, a cena da Bagutta per festeggiare, ma nessuna voglia avevo di far festa, il mio fucile consumato di colpi ormai sparati. Ricordo presi Davide da parte, dissi che ormai il concime aveva invaso il campo, che il mio corpo era corroso da vermi, la vigna era morta, tempo era di finire, lo sentivo, figlio d’una generazione di girini che non volevano diventare rane. E se volete sapere la mia vita chiedete a Davide, lui ha scritto un libro vero, il mio mestiere di vivere ha indagato, più delle pagine d’un diario abbandonato, più di tante poesie-racconto, sofferenti e spietate, pagine di vita malandate, come il mio esistere inquieto e disperato. Un amico, Davide, è stato, tra la città piena di luci ed i miei campi, da dove entrambi un tempo siamo nati, e poi discesi a conquistare il campo di lettere, giornali, stampa, corso Valdocco, piazza San Carlo, colline e libri, silenzi e vallate, olmi e vigneti, torrenti e fiumi vicino al Valentino, amicizia intensa, nonostante tutto, così diversi eppur così speciali, lui per la vita, io sempre per la morte, amica silente da tenere accanto.
Santo Stefano Belbo è la mia casa, qui sono nato e qui voglio tornare, tra le colline lasciate ad aspettare, pure se la vita scorre altrove, persino al confino devo andare, nella Calabria lontana, a espiare tristezze d’uomo che non lascia in attesa il disperare. Ero un bambino che stava appollaiato su una pianta in cortile a legger libri o fumetti, così mi ricordano nella cascina di San Sebastiano, nella strada che da Canelli porta a Santo Stefano. In quella casa dove sono nato per un destino strano, ché tutta la mia famiglia da tempo era a Torino e qui veniva solo per l’estate, ho avuto un vero amico, Pinolo Scaglione, che ne La luna e i falò ho chiamato Nuto. E la mia vita è racchiusa in quella strada che porta giù a Canelli, poi c’è Liguria, vita, mare, America e speranza, pure se Lavorare stanca, pure se al paese tutto è permesso, tutto è consentito ed è troppo più bello vivere in campagna che per strade precise di città. Muore mio padre che son solo un bambino e sento un vuoto enorme dentro al cuore, trattengo le lacrime come un vero uomo, resta la mamma, donna forte, donna coraggiosa, provata dal dolore, donna austera che impone e non perdona, ordina silenzio e non sorride, mette in tavola minestra con la zucca e noi si deve sol mangiare. Ordini al posto degli abbracci mi rendono un ragazzo taciturno che si confida con le bisce e gli animali, persino col fiume e con le piante, non con mia madre che m’è così lontana. Santo Stefano Belbo mi pervade, non la sua gente, forse più le cose, i campi, il paesaggio, i ricordi d’infanzia, i compagni che racconto in Feria d’agosto e nei romanzi adulti. E la mia giovinezza scorre tra pagine di libri e di giornaletti che amo più dei testi di scuola, come li amava mio padre, la mia campagna come fuga dal mondo, altro che la noiosa città. Una sorella ombra e una madre dura, son quel che resta della mia famiglia, ma quel che conta è scappare, d’estate, a Santo Stefano, correre via felice, verso la libertà. La luna e i falò con il Nuto è il romanzo di Santo Stefano, è la mia storia fanciulla, il mio ricordo perduto di quattro baracche e un gran fango, mentre traversando le Langhe, da Canelli si arriva al mare. Torino è la città triste – come ogni città della mia vita -, dove frequento una scuola che non amo, con poco frutto, voti scadenti, dicono che son svogliato, che on amo studiare, ma leggo romanzi e scrivo temi stupendi che non seguono tracce e percorsi, dicono il loro pensiero. Son già scrittore, taciturno, solitario, mi lego ad amici diversi da me per avere sostegno, e mi perdo in vaghe nostalgie campestri per strade anguste di città. Ed è qui che nasce Paesi tuoi con un Pavese cittadino e un Pavese campagnolo, confusi in due personaggi, mentre le descrizioni dei luoghi son la mia vita vissuta, quel mondo che in fondo conosco. Eravamo i ragazzi. La città ci piaceva di giorno: la sera tacere e guardare le luci in distanza e ascoltare i clamori. Giocavamo nei prati dove giungono i corsi. E leggere Guido da Verona, passare a D’Annunzio, Papini, conoscere Mario Sturani, un amico importante, imparare a studiare l’inglese – una lingua che amo! -, la cultura greca e latina, i vecchi scrittori. E no che non sono fascista, così timido e un po’ campagnolo, no che non sono un ardito, non ho quel fulgore nel petto, non ho amor di patria, non amo la lotta e la guerra, il suon delle armi, l’incedere da condottiero. Le ragazze che sbocciano intorno, al ginnasio un biondo ricordo chiamato Olga, io incapace di dirle il mio grande amore adolescente che voleva tenerle la mano un istante e invece, impossibile, come spesso sarebbe stato, ossessioni e sbigottimenti d’un mondo interiore, un tormento indicibile e strano. Rammento il professor Augusto Monti e le sue lezioni d’italiano, quando ci diceva non serve imparare a mente la data di nascita d’un poeta, invece è importante capire una poesia, un racconto, un poema, renderlo nostro. Grande insegnante che ho avuto, forse il mio amore per le lettere è figlio suo, come grande amico è stato Sturani al quale per primo ho confessato che verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. E il mio amico Baraldi che si suicida, mentre io scrivo versi di morte, la ballerina che mi fa attendere invano sotto la pioggia e la mia asma ne soffre, finisce che mi ammalo, capisco che con le donne la mia timidezza non avrà vita facile. I miei personaggi saranno sempre uomini malinconici, solitari che passano la vita in osteria, tra vini e discussioni, donne facili e amici occasionali, senza mestiere, senza dimora, solo bere e fumare, vagare senza meta, salire in collina in cerca di balere e donne da innamorare. Forse questo vorrei, quel che non posso, e ciò che proprio non voglio è lo scudo fascista, mi basta quello del professor Monti al confino, dove sarà mia sorte andare, dopo l’Università vissuta con gli amici e i libri da studiare, con Ginzburg e Bobbio, tra fiume e Fiat Lingotto, in riva al Po, per scrivere e pensare. Tradurre Moby Dick sarà il mio modo di vivere avventure impossibili, sulle orme di Melville, tra fantasia e ragione, tormenti impossibili e capitani coraggiosi. Io sono il capitano Achab della mia barca e navigo un fiume di città, da Moncalieri e Torino, ricordando il Belbo, a Santo Stefano, e la campagna. Scrivere una tesi sulla poesia di Walt Whitman, in quella temperie culturale, sarà la mia sfida più grande, solo questo posso fare da odiator di tiranni, come mi ha insegnato il professor Monti al liceo D’Azeglio. Ricordo con strazio il mio amore incompiuto, tutto quel che non posso avere, la donna impossibile che ama e tradisce, la sola donna che ho amato, la donna dalla voce rauca, la donna che mi ha lasciato, lei che poteva insegnarmi il mestiere di vivere. Lavorare stanca sarà intriso di lei, dei suoi occhi, del suo carattere fermo e deciso, della sua matematica freddezza, come una ferita aperta che si rimarginerà solo nella morte. Tradimento e dolore, una voce di tempi perduti, l’ho cercata dal fondo di tutte le cose che mi sono più care, e non sono riuscito a capirla. Tutto il mio mondo campestre era in lei, le colline, l’infanzia, il cielo, i mattini più limpidi e strani, ma quando poi m’ha lasciato era nebbia, era nube, era voce velata di pianto. E allora capisco che la solitudine uccide la vita e che non vale la pena esser solo per essere sempre più solo, che bisogna fermare una donna e parlarle e deciderla a vivere insieme. Tutte le donne della mia vita saranno solo rimpianto e occasioni perdute, pur belle resteranno distanti, come la donna che viene da mondi lontani, la bionda che porta l’America in petto e sorride, ma come tutte ti lascia. Non resta che il vizio assurdo, un vizio che non è morire per una donna, bada bene, ma è quando una donna ti mostra il niente che sei, il nulla che ti circonda, la miseria, la conferma del vuoto. Tutte le mie poesie e i racconti – Il carcere che narra il mio confino! – parleranno di donne, ma saranno donne vendetta, donne che fanno del male, donne che fanno morire e che fuggono via dai tuoi sguardi.
Muore mia madre che sono appena laureato e mi restano in cuore troppe lacrime non piante. Non basterà una vita per assaporarle in una casa solitaria, con mia sorella sposata e con prole, io che mi ritiro nella mia stanzetta, sommerso da libri, fogli battuti a macchina, appunti e traduzioni. Non ho mai legato con mia madre, il rimpianto di lei sarà il mio cruccio più grande, non averci potuto parlare e discutere, senza litigi, senza intere giornate di lunghi silenzi. Tradurre è la sola trincea dalla quale combatto il fascismo, ché io non faccio politica, scrivo, amo il racconto, il romanzo, la libertà che emanano liriche e pagine di grandi scrittori. Rendo italiano Sinclair Lewis e quei personaggi assetati di libertà, ma anche Edgar Lee Masters, la consapevolezza austera e fraterna del dolore nel cimiero universale di Spoon River. Tra tutti preferisco Melville, la tragedia di Moby Dick vive d’un solo personaggio immortale, dalla sua prosa comprendo che in un romanzo basta un personaggio importante, l’autore, cui tutto fa capo. Infine Mathiessen e il suo vizio assurdo, così vicino al mio, forse per questo lo amo, lo seguo e lo imito fino in fondo. Non ho tessera del partito, non è facile trovare un impiego da professore nella scuola statale, solo supplenze e scuole private, ché concorsi non me ne lascian fare. Vivo la passione per la letteratura con altri miei simili e ci troviamo a lavorare per una casa editrice fondata da un antifascista più vecchio di noi, pure lui allievo di Monti. Giulio Einaudi, si chiama, quel nome diventerà un marchio della vecchia Torino, un simbolo di libertà, editoria indipendente contro le dittature nel mondo, soprattutto in Italia. Einaudi sarebbe diventato il centro della mia vita, pure se quando nacque in quelle due stanzette non potevo saperlo, era solo un modo per opporsi al fascismo, da intellettuali. Il confino in Calabria è un passo dovuto, dopo il carcere e le poesie che faticano a uscire, perché non c’è carta, poi non le ha scritte un poeta di corte, non son certo un omaggio al regime. Lavorare stanca è il mio tormento mentre mi consumo al confino lontano da casa, pensando che è triste metter su famiglia senza avere famiglia. Scrivo un po’ a tutti da Brancaleone, chiedo soldi e libri, soprattutto libri, racconto le mie giornate sempre uguali che scorrono tra casa, caffè, qualche birra – se trovo il denaro – poesie da comporre, assenza di donne, rimpianti, dolore per lei che ho lasciato. Odio il mare – come sempre – da quel posto dove m’hanno obbligato a passare un anno di vita, dove tutto sa di salsedine e pesce. Quanto mi manca il mio fiume e la vista della verde collina, che si apre verso Superga, quanto vorrei rivedere, se non proprio le Langhe, almeno Torino. Qui non c’è altro che mare, costretto tra le tamerici e sterpi, agavi e tristi oleandri, vedo scogliere che diradano al mare e non riesco più a poetare.
Tornare a Torino per lei e non trovarla, con due valigie piene di libri e di fogli riempiti nelle lunghe notti di Brancaleone popolate di sogni e di scarafaggi. Dopo tutto il tedio del mare torno a Torino, al mio fiume, ai miei colli che specchiano abeti e rimpianti nel corso fluente del Po. La vita di confino è come l’altra, in fondo, solo più sporca. Ma a Torino la vita è persino peggiore, ché lei non c’è più, lei mi ha tradito, lei non mi ha aspettato, lei ha sposato un altro. Questo è il mio vero confino dal mondo, la mia non vita guardando la vita degli altri. E anche il resto non va mica bene, le poesie non trovano critici e ancor meno lettori. Leggo e traduco, solo questo mi resta, la mia accidia si placa nelle pagine d’un diario che leggerete dopo la mia morte, ma che ho scritto per voi, per far capire chi ero davvero a chi pensava d’avermi capito e giudicava senza sapere. Scrivo racconti che non pubblico perché più privati del diario, li leggerete dopo che sarò uscito dalla scena del baccano, come Notte di festa, ma non erano notti di festa, mai titolo fu più inadeguato. Dalle poesie-racconto, – cominciano con Torino luogo da cui si ritorna e finiscono con Torino luogo dove si tornerà -, ai racconti senza trama, tutti impressioni e introspezione. Cerco solo una vita che si lasci guardare. Non desidero altro, se non morire. E la vita mi conduce al romanzo, così scrivo Il carcere e La casa in collina, due storie di lungo respiro unite da un titolo che è la mia vita, Prima che il gallo canti, questa volta adeguato, ché l’ho scelto da solo. Il carcere scritto di getto in piena bufera fascista, mentre osservo me stesso e il recente passato, parlo di mare come quarta parete della mia cella ricordando il triste confino. Paesi tuoi, invece, torna alle amate Langhe e a quel paesaggio che profuma d’infanzia, dove specchiare la tragedia immanente tra i miei contadini. Sangue, sesso, miseria, egoismo, analfabetismo e fatica; tanto fervore politico che mi trascina e mi prende, non mi fa pensare. Il lavoro riesce a farmi vivere anche senza una donna, una storia, una famiglia da amare. Non riesco a trovare una fede in un Dio ma ho la mia opera, con lei mi confronto e con il lettore. Son vissuto per creare, così riuscirò a non morire, grazie alle cose che scrivo.
A Torino sta per scoppiare la guerra, io do consigli a scrittori, ricevo manoscritti mentre scopro Thomas Mann, il più grande di tutti, che leggo per intero. Ma la donna con la voce rauca tormenta la mia vita, ritorna, mi fa soffrire al telefono, riapre ferite insanabili. Tento di far politica e scrivo La tenda – che diventerà La bella estate -, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole; romanzi decadenti, per alcuni, storie che parlano di personaggi riflesso di me stesso che non so farmi una famiglia, la sola cosa che vorrei. Parlo di campagna e di politica, ricerco uno stile nuovo fatto di conversazione al posto del monologo di Paesi tuoi. E parlo di Torino, tra balere in collina d’estate e caffè con vetrate d’inverno, quando cade la neve. Vado al mare, persino, sulla spiaggia di Varigotti, scrivo il romanzo più strano della mia vita, per gelosia di Sturani che s’è sposato e s’è fatto una famiglia. Sfogo la mia rabbia contro il matrimonio in un romanzo ambientato fuori dal mio mondo, La spiaggia. Una casa senza mattoni, una lavoro che è solo ricerca di stile, una storia che non amo, della quale quasi mi vergogno. Mentre infuria la guerra, alla fine del Quaranta, rivedo Fernanda Pivano, una mia ex studentessa, la seconda donna importante della mia vita, un altro tentativo fallito. Fernanda è giovane, stima il suo professore, lo ascolta estasiata, ma non è pronta a sposarlo, lei è innamorata del sogno d’andare in America, vuole tradurre scrittori, viaggiare, conoscere il mondo. Non può fermare il suo volo a Torino, non con me, almeno, in fondo la comprendo ma mi fa molto male, pare un nuovo tradimento. Mi restano di lei lettere appassionate che le ho scritto e due richieste di matrimonio in cinque anni, rifiutate. Le uniche donne che vale la pena di sposare son quelle che non ci si può fidare di sposare. Io e Fernanda abbiamo molte cose in comune ma non la più importante, non ci lega l’amore, non ci unisce il desiderio di costruire una famiglia e vivere insieme.
Il paese sprofonda nella guerra proprio mentre Paesi tuoi ottiene un grande successo di pubblico e io ne sono felice, ma dura poco, ché il me stesso indeciso di sempre ritorna e mi perde. Ero a Roma per la Casa Editrice, rientro a Torino, vedo la città distrutta da bombe e spezzoni incendiari, tutti i miei amici hanno preso la via della montagna per entrare nelle bande partigiane. Mi trovo solo nel momento più tremendo, tagliato fuori dagli amici cospiratori e l’unica cosa che so fare è andare a Serralunga da mia sorella Maria. Il mio coraggio morale è grande ma il coraggio fisico non è abbastanza: gli spari, le armi e il sangue mi terrorizzano. Resto a Serralunga, solo con me stesso, isolato dal mondo. Mi chiudo in una trincea fatta di libri e quando alzo la testa dalla pagina scritta contemplo la natura, le colline e sul mio orizzonte d’infanzia costruisco i miei simboli. Nessuno cambia più, ognuno è prigioniero di se stesso. E non mi fa bene neppure rivedere Fernanda, assegnata come professoressa a Serralunga, ché sono incontri fugaci con una donna che non può amarmi. Sopravvivo grazie al lavoro, completo i racconti di Feria d’agosto ed elaboro idee per scrivere La casa in colina, Il compagno e i Dialoghi con Leucò. Annoto nel diario la vittoria vicina confondendola con la natura che rinasce. Avverto la tragedia umana recluso tra le colline e lo scrivo in un libro come La casa in collina, protetto dal mio personaggio. E quel libro lo finirò molti anni dopo, uscirà nel 1949, portando alla ribalta il me stesso più riuscito, Corrado, sorpreso dalla guerra civile in un frastuono di fuoco, di bombardamenti, di vite spezzate, costretto a mangiarsi gli anni e il cuore. Corrado non ha figli e ne sente la mancanza, proprio come me, incarna uno dei temi di sempre, insieme all’infanzia, al rifiuto d’una donna, all’abbandono, al suicidio. E poi c’è Torino sotto i bombardamenti, non mancano i temi sociali, pure se non riesco a legare con gli altri, sto bene soltanto in disparte, a scrivere. La casa in collina è il mio romanzo più sincero, secondo solo all’ultima confessione de La luna e i falò, ma è storia di Resistenza come Il carcere, Il compagno, Paesi tuoi … . Pochi giorni dopo la Liberazione torno a Torino per riorganizzare la Casa Editrice, ma vengo a sapere di troppi amici morti, notizie che fanno star male e mi provocano un senso d’angoscia. Corando fucilato, Pajetta caduto in battaglia, Capriolo impiccato, Pintor e Ginzburg morti. E così da recluso in collina divento recluso in città, per la pena, per la vergogna e il rimorso del coraggio mancato. Decido di iscrivermi al Partito Comunista – sezione Pajetta, povero amico mio coraggioso! – come se fosse una sorta di risarcimento, un omaggio agli amici morti, per essere degno di loro. Conosco Davide Lajolo, che dirige L’Unità, proprio lui scriverà la mia biografia e scaverà nel vizio assurdo, mi affida la Terza Pagina dove scrivo una serie di articoli. Incontro Italo Calvino e Silvio Micheli, con loro rafforziamo Einaudi e L’Unità, ma non basta. Faccio la spola tra Torino e Roma per potenziare la sede della Casa Editrice nella capitale, vado pure a Milano, ma vivere lontano dalla mia terra mi fa star male, mi par d’esser di nuovo in esilio, al confino, lontano da un mondo che si specchia tra il Po e le colline non so vivere. Abito in un albergo romano, godo quel cielo di stelle, osservo le donne, provo a scrivere insieme a una donna – Bianca Garufi – quel Fuoco grande che non finirò mai e riporrò in un cassetto. Ma lo pubblicheranno, dopo la mia morte, il titolo non sarà mio, come il romanzo, ricco di personaggi morbosi e disperati che non mi rappresentano, che non vorrei veder uscire in un libro con sopra impresso il mio nome. Torno a Torino e vado di nuovo ad abitare nello studiolo di via Lamarmora con la finestra sulla strada, pure se la mia vera casa diventa l’ufficio di corso Re Umberto, spesso finisco dentro a un cinema di periferia a rivedere per tre volte lo stesso film. Sono di nuovo solo, anche a casa mia, finisce che per due anni consecutivi detto i miei romanzi a Maria Livia, una studentessa che porto a lavorare in Casa Editrice, invece di scriverli. Diventiamo amici, passeggiamo per Torino, ceniamo alla Trattoria del Popolo di Simone o – se in vena di pazzie – al ristorante Duja-Dor, dove beviamo Barolo, poi camminiamo in riva alla Dora, saliamo in collina, mostro a Maria Livia i caffè dove ho scritto racconti e poesie. Sto bene con lei, mi tonifica, mi rende più allegro e sereno, le detto Il compagno, le leggo i Dialoghi con Leucò, il mio libro più bello, l’opera che amo di più, quel dissolvere tutto nel mito, persino me stesso, le mie Operette Morali concepite a Serralunga, in collina. Finisco Il compagno e comincio a dettare La casa in collina, in pieno fervore creativo, ma una volta terminato resto come un fucile sparato, sprofondo nella consueta amarezza, mi devo persino operare perché l’asma peggiora, resto solo notte e giorno, come un morto. Perdo anche Maria Livia che si trasferisce a Roma, mi sento inutile, non sono una roccia né un uomo di ferrea volontà, mordo il cuore della solitudine e perdo ogni certezza, se non il vizio assurdo, il vizio di morire. Non sopporto più la solitudine, neppure a Torino, tra i luoghi familiari, dove mi sembra di soffocare, finisce che scappo dal Nuto, sulla riva del Belbo, per scambiar due parole con il falegname. La città mi scotta, mi chiudo in un cinema, sto seduto a un caffè, osservo le ragazze passare, mi fermo a dormire in Casa Editrice dove invito ragazze rimaste senza clienti di corso re Umberto e sto insieme a loro. Scrivo Il diavolo sulle colline, che non piace né ai borghesi né ai proletari, poi Tra donne sole, ancor più incompreso, persino dal Monti, il mio professore; tiro fuori dal cassetto La bella estate, scritto nel 1940, così nel 1949 esce la trilogia dei racconti con il titolo della storia più vecchia. Un libro che lascerà sconcertato chi non ha mai capito, ché dentro c’è tutto: colline, Torino, persino il modo in cui dovrò morire.
Ma prima di morire mi resta una cosa da fare, La luna e i falò, il romanzo su Santo Stefano Belbo e l’infanzia, il romanzo del ritorno, ma anche un romanzo di Resistenza, un romanzo che ho dentro da tempo, che vomito in meno di un mese, me ne libero in fretta e resto di nuovo svuotato, forse nel modo peggiore, totalmente svuotato. Vado dal Nuto che fa da consulente, alloggio all’Albergo della Posta, e ricerco il me stesso del tempo perduto, con il cuore pieno di ricordi, per ritrovare il calore dell’infanzia, i volti antichi, l’erba, i boschi, le vigne. La luna e i falò segna la fine del dialogo con me stesso e con il mondo della fanciullezza, tra fedeltà e tradimento, amore e abbandono, politica e mito, collina e mare, città e campagna, infanzia e maturità. La mia autobiografia più sincera, il libro che mi portavo dentro da troppo tempo e che ho goduto a scrivere, che mi lascia come un fucile sparato. Ed è forse in quel momento che decido il gesto anticipato dal romanzo Tra donne sole, anche se torna Constance, la mia bionda americana, e mi par d’essere ancora innamorato, m’aggrappo a una speranza, ma tutto svanisce in un nuovo abbandono. Torna il ricordo del primo baratro dove son caduto, crolla tutta una vita di fronte all’ultimo rifiuto e comincia la cadenza del soffrire, ogni sera all’imbrunire, stretta al cuore, fino a notte. Mi domina il vizio assurdo anche se vinco il Premio Strega e non ci vorrei neppure andare al premio mondano, ma poi metto un vestito nuovo e sono della festa con il mio solito umore scontroso. Spero ancora che Constance risponda alla mia promessa di matrimonio, ma non accade e allora tutto è deciso, so che non finirò l’anno iniziato nella mia Torino. La sede della mia partenza si chiama Albergo Roma, dove prendo una stanza e Fernanda non viene a trovarmi, peccato, forse sarebbe servito, ma ha il marito malato, dove una ragazza incontrata in una sala da ballo risponde che non verrà da me perché son troppo noioso. E allora bustine di sonnifero in dosi massicce, come in Tra donne sole, dopo essermi tolto le scarpe, seduto sul letto, mi ritroverà un cameriere al mattino, i Dialoghi con Leucò aperti e sopra una scritta, il mio perdono che chiedo e dispenso, poi prego la gente di non fare troppi pettegolezzi. Non scriverò più, questo è certo.
Sono i miei libri il solo strumento di vendetta contro le donne, quelle donne che non ho potuto avere, che nella finzione uccido e faccio sposare con uomini violenti, ingrassati e volgari, cambiati dal tempo. Paesi tuoi con Gisella e il tridente di Talino, sangue e morte, la vendetta contro me stesso condita da un fiume di parole, sono io che muoio, trafitto dal dolore, non lei, non il mio personaggio sconfitto. La bella estate, con protagoniste quattro donne perdute, una zoppa, l’altra vergine, poi una modella amorale e una matta senza scampo; nuova vendetta consumata per far sprofondare la donna in un gorgo di mare e miseria. La spiaggia con tutto quel mare, lontani i miei monti da amare e la città di Torino, per capire che è inutile sposare, torna l’infedeltà, purtroppo, la donna non la puoi cambiare. E le donne di Feria d’agosto, le donne della mia infanzia, madri o ragazze, che trasformano il sapore remoto del vento in sapore di carne. Scrivo i Dialoghi con Leucò e finisce che anche nel mito è vendetta, ché la sola donna felice è perversa, una bestia, una donna che basta a se stessa. Fuoco grande non l’ho mai terminato, tu pensa l’ho scritto insieme a una donna, ma ancora racconta di donne perdute, così come Il compagno che sulle donne incupisce il velo poetico e la mia passione. Tra donne sole è il romanzo più vero e crudele, ché la donna suicida son io, col mio disgusto, il ribrezzo, l’idea ricorrente che un altro giorno è finito e mi ritrovo ancora da solo, attendendo il mattino. Tra donne sole prepara il gran salto, il mio levarmi di mezzo, per togliermi da questo baccano, ché c’è troppo rumore nel mondo. E con La luna e i falò torno a far testamento al paese, ma le donne son troppo cambiate, non son più fanciulle illibate. Il mestiere di vivere è il mio diario, così me l’han chiamato, un titolo che proviene dalle mie parole, pure se quel mestiere non l’ho mai imparato. Un diario dove racconto tutto di me, senza filtri, senza finzioni, ci sono i turbamenti verso le donne più amate, il mio senso di inferiorità come uomo sugli altri uomini, di fronte alla donna, amara come la morte. Il vizio assurdo che torna con le poesie e con la nuova storia d’amore, il mio ultimo flirt, l’incubo della donna che si veste d’America, un altro mio amore lontano, con i suoi scrittori, i miei sogni.
Ma non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla. E in fondo è vero che Verrà la morte e avrà i tuoi occhi/ questa morte che ci accompagna/ dal mattino alla sera, insonne,/ sorda come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo. Avrà gli occhi di un amore passeggero, un passo leggero che riapre il dolore, lo so bene, il male che mi è stato fatto non può guarire. Alla fine di tutto non resta che morire.
Gordiano Lupi
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