Gordiano Lupi – Jorges Luis Borges, la letteratura come finzione
Nasco nell’agosto del 1899, a Buenos Aires, dove vivo sempre, anche da lontano, perché qui sono le mie radici. Non sono mai stato uno scrittore di best-seller, sono un autore per pochi adepti, ma tanti giovani mi ascoltano e mi seguono. Sono un nostalgico dei paradisi perduti, irraggiungibili, forse mai esistiti; sono un profeta del nostro tragico destino, di uomini intrappolati dal tempo e dallo spazio, destinati alla solitudine e alla morte. Vivo da cinquant’anni in tre stanze – son più che sufficienti! -, in calle Maipú, cucinino, bagno, persino diverse sedie, un letto, più di quel che serve, nella casa dove mia madre è morta, a 99 anni, nel 1975. Vivo la mia vecchiaia in penombra, con Beppo, enorme gatto bianco, con il ricordo di mia madre – Leonor Acevedo – e il destino dei Borges negli occhi, diventare cieco come mio padre, poco a poco. Il letto intoccabile di mamma, le foto di famiglia sulla grande scrivania, i miei libri, i fiori che Fanny, la governante, cambia ogni giorno nel grande vaso di vetro. Beppo vive nella stanza di mia madre – il suo nome ricorda la storia d’un marito saggio che al ritorno da un viaggio perdona il tradimento della moglie – e sorveglia le mie cose disposte ad arte per facilitare il lavoro, perché è qui che scrivo. Di tanto in tanto bevo mate, non molto, non sono un amante del mate, preferisco il tè o il caffè, anche se sono argentino fino al midollo. Mangio poco, riso al burro, verdura e frutta, dulce de leche, ché son goloso; dormo in una piccola stanza con un letto di ferro, circondato da diplomi e lauree. Tutti i miei libri per compagni, una storia della letteratura universale, senza date, composta di opere fantastiche scritte in tante lingue musicali. Rimpiango il tempo in cui non si stampavano libri, perché si ricopiava a mano con fatica solo quel che meritava leggere e rileggere per tutta la vita; adesso si stampa di tutto, soprattutto roba inutile. Forse perché son vecchio, ricordo il passato.
Cresco in un giardino protetto da una cancellata, in mezzo ai libri, in un biblioteca di volumi inglesi, nel mio dolce suburbio di Buenos Aires illuminato dai sogni che escono da pagine immortali. La biblioteca di mio padre è la cosa più importante della mia vita, imparo a leggere in inglese – la lingua dei miei avi – persino il Don Chisciotte lo conosco in inglese e quando lo trovo in spagnolo penso che sia una pessima traduzione. Leggo tanto, stimolato da mio padre, è la lettura a rendermi scrittore, la lettura è il mio vizio, la mia droga, ma la sofferenza è che non vedo bene, come mio padre, che morirà completamente cieco. La maledizione dei Borges mi colpisce: gareggiare con deboli occhi destinati ad abbandonarmi, ma non poter fare a meno di leggere, divorare testi poetici, filosofia, storia. Scrivere un libro è un atto sacro, proprio come leggerlo, così come è sacro raccontare vita e opere di scrittori, compilare biografie. E io lo faccio nel 1930, con Evaristo Carriego, un modo come un altro per narrare la mia storia infinita, per evocare ricordi, il mitico quartiere Palermo, descrivendolo come forse è esistito soltanto nella mia memoria. Nasco prematuro, di otto mesi, è il 24 agosto del 1899, in via Tucumán, numero 840; mi chiamano Jorge Francisco Isidoro Luís, userò solo il primo e il quarto nome, son sufficienti, credo, soprattutto il nome di mio padre mi piace, le prime cose poi le firmo Jorge, per confondere le acque. La mia casa di via Tucumán, soltanto un piano, un tetto piatto, un lungo ingresso, una cisterna per l’acqua e due patios. Vivo nel quartiere Palermo, lontano dai suoi abitanti teppisti, protetto da un padre avvocato e psicologo, buono e intelligente, così modesto da voler scomparire nei suoi libri, rendersi quasi invisibile. Mi trasmette l’amore per la poesia e per la filosofia, mi fa crescere nel culto degli antenati inglesi che difesero la patria, mi trasmette l’idea che l’inglese sia sinonimo di cultura, fino a diventare la mia prima lingua. Credo di aver sempre saputo leggere, da bambino la più grande punizione è togliermi i libri, forse è tutta colpa di Fanny, la mia nonna inglese. Scrivo il mio primo racconto a sette anni – L’elmo fatale – imitando Cervantes; a nove anni traduco in spagnolo Il principe felice di Oscar Wilde, lo pubblica El País di Buenos Aires pensando che sia opera di mio padre, ché lo firmo Jorge Borges. Io e mia sorella Norah veniamo educati da Miss Tink, governante inglese, non mi mandano alla scuola pubblica fino a nove anni, non si fidano, pure perché mio padre è anarchico, ma quando entro in quel mondo non è facile capirlo, è un duro colpo. Passiamo l’estate ad Adrogué, a sud di Buenos Aires, o in Uruguay, a Paso Molino, periferia di Montevideo. Ricordo un fiume, il giardino, gli alberi, le letture fantastiche, le recite con mia sorella. Adrogué è uno dei luoghi della mia felicità, in qualunque parte del mondo mi trovi, quando sento il profumo degli eucalipti sono ad Adrogué, un mondo di polvere e gelsomini dove conosco il tango e la milonga, pure le risse di quartiere e le lotte al coltello. Cresco con due codici linguistici: l’inglese di mio padre, dei libri, della nonna; lo spagnolo della madre, della scuola, della vita, delle prime prove letterarie. Ma sono argentino e devo scrivere in spagnolo, se voglio fare lo scrittore. Le parole sono importanti, devono essere sincere, devono essere le nostre parole, scritte senza inganni, comprensibili, pur nella finzione. Sono un uomo indeciso, cavilloso, ostinato, geloso, persino egoista, ma non porto rancore, non è il mio stile, preferisco allontanare chi non amo, chi mi sfrutta, escluderlo dalla mia vita, destinarlo a un personale oblio, come se non esistesse. Ho una memoria fotografica, amo l’ironia al servizio della memoria, sono anarchico e liberale, vorrei uno Stato che garantisca la massima libertà individuale e un minimo di governo. Sono contro Perón, contro tutte le dittature, ma non sono un fanatico della democrazia, non penso che in politica ogni sciocco debba aver diritto di parola, così come non conta l’opinione di un uomo poco intelligente se parliamo di teoria della relatività e di letteratura surrealista. La Nación mi censura le poesie su ordine di Perón, non pubblicano Il pugnale, scritta contro i tiranni, pure se sono il Presidente dell’Unione degli Scrittori Argentini. Nel 1914 mio padre decide di compiere un viaggio in Europa, ma scoppia la guerra, restiamo per anni bloccati in Svizzera, a Ginevra, un posto che comunque non mi dispiace, dove tonerò spesso durante la mia vita. Visitiamo, nonostante il conflitto bellico, Verona e Venezia, Padova e Milano; andiamo un anno a Lugano, poco dopo la morte della nonna materna, quindi passiamo due anni in Spagna. In Europa scopro il latino e imparo il francese, utile per frequentare il collegio a Ginevra, senza dimenticare il tedesco, appreso per curiosità, per il gusto di leggere autori in lingua originale. Sono timido con l’altro sesso, a iniziarmi è mio padre che mi porta in una casa di tolleranza complicando i miei problemi con le donne, conclusi con il fallimento d’un matrimonio durato tre anni, dal 1967 al 1970, con Elsa Astete Millán. Vado spedito a leggere scrittori, invece: Heine, Meyrink (Il golem), Jean Paul Richter, De Quincey, Carlyle, Schopenauer (il mio filosofo!), ma è Walt Whitman, scoperto a Ginevra, l’unico poeta da imitare. Mi laureo in lettere e la decisione è presa: il mio destino è fare lo scrittore. Vado a Maiorca con mio padre dove scrivo poesie mai pubblicate – I ritmi rossi e Le carte del baro -, leggo il latino, studio pure l’arabo. A Siviglia mi pubblicano in una rivista L’inno al mare, scritto imitando Whitman; a Madrid conosco tanti scrittori spagnoli, da Ortega y Gasset a Juan Ramón Jiménez, studio il barocco, leggo Gongora, Quevedo e Cervantes. Torno a Buenos Aires nel 1921, ricco di esperienze e con una gran voglia di riscoprire i quartieri modificati del mio mondo. Faccio passeggiate letterarie con un gruppo di amici e con loro fondo Prisma, un giornale murale che di notte incolliamo sui muri delle case. Prisma dura poco, appena il tempo per approfondire il mio ultraismo, tentativo estremo di ridurre la poesia a metafora, abolire ogni ornamento, sintetizzare immagini per suggestionare. Fervore di Buenos Aires forse è ultraista, un eccesso che non amo, ma non posso rinnegare quel che ha fatto parte della vita. Scrivo sette libri in dieci anni, dal Venti al Trenta, forse troppi, quattro saggi, tre raccolte di poesie; fondo Prisma e Proa, collaboro a periodici, scrivo raccolte di saggi (Inquisizioni, La dimensione della mia speranza, Il linguaggio degli argentini), che poi ripudio, ma li ho scritti. Seguo mio padre in Europa – deve curarsi una vista che si perde -, lascio i miei libri e una ragazza dalle lunghe trecce per andare a Londra, Parigi, Ginevra, quindi a Madrid. Capita che La revista de ocidente lodi il mio primo libro, Fervore di Buenos Aires, e mi invitino a scrivere per loro. Quando torno a Buenos Aires cambiamo casa, andiamo in avenida Quintana al 222, mi rendo conto che il mio libro pure qui è piaciuto, soprattutto che la mia ragazza non ha più le trecce, con il taglio è svanito anche il mio amore. Divento antagonista del simbolista Leopoldo Lugones, sono il portavoce della nuova poesia argentina, nonostante tutto stimo il mio rivale, soffro quando muore suicida, nel 1938. A Lugones mandavo ogni mio libro, appena uscito, pure se non c’era dialogo tra noi, troppa diversità di approccio letterario. L’artefice – il mio libro metà prosa e metà lirica – si apre con una dedica al poeta, una visita mai avvenuta, come in un sogno, come in un incanto, con la speranza di rivedersi un giorno in mezzo ai libri d’una grande, immensa biblioteca. Invecchio, ricevo tante lauree, vengo onorato e celebrato, raggiungo luoghi dove mi invitano a parlare; son quasi cieco, nonostante tutto scrivo, mando avanti tutte le mie metafore. Ricordo d’un tratto le 64 pagine del mio primo libro – Fervor de Buenos Aires – stampato a mie spese in trecento copie, poesie che rivedo e correggo per tutta la vita ma che non ripudio. Ero giovane anche ai tempi del Quaderno San Martín che modifico, limo, perfeziono anche da vecchio, per consegnarlo alla mia Opera Completa. Le mie poesie giovanili cantano l’appartenenza alla città, alle mie radici, mettono in lirica un amore geloso e possessivo che non voglio condividere con altri. Passo molti anni lontano da Buenos Aires, penso e ricordo, rivedo in sogno le strade dell’infanzia e il mio giardino, le strade scomode di folla e di strapazzo e le strade indolenti del quartiere, da qui nasce Fervor e tutta la mia letteratura giovanile. Dal 1929 al 1960 non pubblico poesie, mi dedico alla prosa con Evaristo Carriego, Discussione, Storia universale dell’infamia, Storia dell’eternità … mi appassiona il fantastico, persino il poliziesco, infine pubblico Finzioni, i racconti de L’Aleph e Altre inquisizioni. L’artefice riporta la poesia insieme alla prosa: in fondo che differenza fa? Per l’immaginazione son la stessa cosa. Il mio tempo minore resta per l’opera in versi: L’altro lo stesso, Per le sei corde, Elogio dell’ombra, L’oro delle tigri, La rosa profonda, La moneta di ferro, Storia della notte, La cifra; poesia e prosa si fondono e confondono, trasmettono emozioni, la poesia è dentro me, in ogni mia pagina, origine di tutto. Sono vecchio quando vedo Palermo, non il mio quartiere di Buenos Aires, il ricordo dell’infanzia, ma la città siciliana. In Italia traducono i Colloqui di María Esther Vázquez, la mia ex alunna, segretaria e collaboratrice; mi danno un premio con una rosa d’oro, dicono che sono immortale, no che non lo sono, penso ogni giorno alla vita, ma ne conservo la stessa idea confusa. Non la capisco, non l’ho mai capita. Sono ormai cieco, ma nel sogno vedo, e ogni notte sogno di tornare alle vacanze del mio dolce passato, al profumo di eucalipti e gelsomino che diffondevano i viali di Adrogué, ma anche a Buenos Aires, a un’antica capitale, ai quartieri vecchi e malandati dove bambino un tempo sono stato. Traducete le mie poesie, non le cambiate, soprattutto non le correggete, non le interpretate, lasciate che lo facciano i lettori, salvate le emozioni, non fate caso a traduzioni speculari, ché nella poesia solo conta la parola che si fa emozione. Non illudetevi, non s’insegna a scrivere, si può amare la lettura, si può imitare un autore che si ama, ma non esiste la scuola del miracolo, non esiste chi può insegnare l’arte. Se leggete cercate nei versi e nelle frasi quella cosa chiamata meraviglia, la verità non la troverete, impossibile chiedere a un libro di offrire verità. Finzioni e L’Aleph sono i miei libri migliori, pure se non contengono racconti, sono falsificazioni di storie altrui, di eventi già vissuti. Non invento niente. Non ho mai inventato. Sono i libri di tutto il mio passato, ispirati dal vero, dalle cose, spruzzati di fantastico e di sogni. Sono i libri per cui sono famoso, per cui mi chiamano a parlare in tutto il mondo. Resto convinto che siam fatti della stessa materia dei sogni, non possiamo dare un senso all’universo, al caos, all’infinito. La letteratura è solo un artificio, una finzione. E io son qui che fingo. Son scrittore. Cosa può fare un cieco se non scrivere? Sono un teologo armato di letteratura e nego Dio affermandolo. Ho scritto libri che son diventati classici, libri che si rileggono con misteriosa lealtà perché in loro vibra un’anima capace di sopportare l’oblio del tempo. Il mio tempo mortale termina a Ginevra – il paese della tolleranza e del rispetto – nel 1986, mi chiamavano l’immortale, ma non era vero, accanto a me solo María Kodama, sposata pochi mesi prima, lei mi sopravvive. Non ci saranno che ricordi, definitiva come un marmo, rattristerà la tua assenza altre sere.
Gordiano Lupi
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