Patrizia Raveggi – Ferro ignique
Guerre mondiali, rivoluzioni, altro
Non è avaro il Secolo breve di episodi di ferro e fuoco né di monumenti (in questi giorni infuocati di manifestazioni e proteste per l’uccisione di George Floyd, viene data alle fiamme la Union Jack sul Cenotafio in onore dei caduti della Grande Guerra ideato a Londra dall’architetto Edward Lutyens, per altro responsabile di buona parte della pianificazione urbanistica dell’ottava Delhi), né di opere di storia, di memoria e di narrativa, tra gli innumerevoli esempi di fiction, ne ricordo qui tre cui sono di recente tornata in un percorso/omaggio a Luciano Bianciardi. Dopo due prove di traduzione affidate ad altri e mai pubblicate, alla fine fu lui, Luciano Bianciardi, a tradurre A fable di William Faulkner per Mondadori, ci lavorava in contemporanea alla stesura del suo libro più noto, La vita agra, come suo solito ogni giorno traduceva per cinque o più ore filate, fino a produrre la dose quotidiana di venti cartelle, poi, la domenica, come riposo e relax, scriveva i propri libri. Per motivi insondabili, la traduzione completata nel 1962, fu pubblicata da Mondadori solo nel 1971.
Inseguendo le vie di quella traduzione e prendendo l’avvio da Una Favola, era inevitabile che il tragitto, anche grazie all’amicale memento del prof. Visconti da Genova, approdasse alle indimenticabili scene e ai personaggi (Jean Marie Volonté alias Sergente Ottolenghi, Alain Cuny alias Generale Leone…) di Uomini contro, il film di Francesco Rosi, tratto liberamente da Un anno sull’altopiano, di Emilio Lussu. All’ammutinamento di più compagnie dislocate sull’altopiano di Asiago nella Prima guerra mondiale, mi avevano riportato gli ammutinamenti delle truppe francesi sul fronte occidentale in Una favola; entrambe le opere sono sulla guerra, entrambe chiaramente contro ogni guerra, la figura centrale in entrambe è un antieroe, entrambe raccontano una analoga vicenda di disobbedienza e disorientamento sulla linea del fuoco. Sono invece agli antipodi lo spirito laico e pensoso di Lussu, l’immediatezza della sua aderenza ai fatti, e il piglio dell’oratoria densa, labirintica e spesso ostica alla lettura che appesantisce Una favola, l’opera di Faulkner più dichiaratamente impegnata in una definizione del ruolo morale dell’uomo, costretta in una struttura allegorica che si ispira alla passione di Cristo; nell’una e nell’altra opera senza bisogno di commenti, emana da ogni piega del narrato l’assurdità di attacchi e sortite dalle trincee votati a sconsiderato macello fine a se stesso, la bestialità e insipienza dei comandi supremi, lo strazio delle azioni belliche, il rassegnato calvario delle truppe ignare, le ripetute scene cruente, di ferro e di fuoco. [per passi tratti dai due testi, rimando ad alcuni siti facilmente raggiungibili online, per es quelli che fanno capo a bibliolab e goodreads. La miglior cosa naturalmente è procurarsi i due libri in libreria].
Nelle fucine, nelle miniere
Un legame intimo e di vecchia data, quello tra ferro e fuoco, la fucina di Efesto, il Dio Vulcano che trasforma la pietra in metallo e forgia spade di eroi nelle fornaci dell’Etna, il ferro dei meteoriti (si mormora ma non è confermato scientificamente che fu plasmata da ferro meteoritico la famosa Colonna di ferro nella Old Delhi, che dal IV secolo d.C. a oggi non ha guadagnato un grammo di ruggine) e i minerali di ferro estratti dalle miniere. Nel libello inchiesta sulle Colline Metallifere toscane e sui Minatori della Maremma, appena ripubblicato da Minimumfax, Luciano Bianciardi descrive un processo di torrefazione: “Il minerale veniva accumulato in strati, separati da fascine, fino a formare delle cataste (roste) di 500- 1000 tonnellate. Si provvedeva quindi ad accendere il fuoco nella parte superiore della catasta, la quale poi continuava a bruciare per tre o quattro mesi, fino alla completa torrefazione del materiale. Il fumo acre, denso, come si può immaginare, bruciava e inaridiva ogni cosa all’intorno” . Questo il procedimento per i minerali di rame, il cui uso precedette nell’antichità quello del ferro, più abbondante e diffuso, ma le cui altissime temperature di arrostimento erano impossibili da raggiungere nei millenni protostorici; il raro ferro meteoritico, [ “auto-fuso” lo aveva definito Omero], impreziosiva allora quei monili per i quali l’oro non era sufficientemente pregiato.
L’antico ferro da stiro a carbonella
In un suo romanzo pubblicato nel 2011 da Knopf Canada, Perché essere felice, se puoi essere normale?, la scrittrice inglese Jeanette Winterson dipinge dolorose e divertenti e incredibili storie intensamente vissute e molto sofferte, oppressione e scontri, infanzia tragica e giovinezza tormentata, il tutto ambientato nella Manchester industriale e invivibile degli anni ’60. Senza preavviso, nel corso della narrazione, scompare una figura molto amata, cui tutti si rivolgevano con l’appellativo di “zia”, sebbene non avesse legami di parentela con nessuno e non le si conoscesse una famiglia biologica, zia Nellie, creatura dignitosa e poverissima, vive nei bassifondi della città, è priva di tutto ma capace di dare molto agli altri:
“Zia Nellie usava la latrina esterna comune ad altre due case, ma possedeva un rubinetto proprio, anch’esso esterno, da cui usciva acqua fredda, mentre dentro, nella stanzetta, una stufa di ferro andava a carbone e sopra c’erano un bollitore in alluminio e un pesante ferro da stiro piatto a carbonella. Noi immaginammo che lo usasse per stirare i vestiti ma che di sera lo mettesse nel letto per riscaldarlo un po’.”
Il ferro e il fuoco, nel loro impiego bellico si traducono in armi e armamenti, in massacro e terrore, sono intesi a sopprimere rivolte e rivoltosi, a schiacciare i nemici, ad appianare dissidi; in altre più miti versioni, il ferro e il fuoco uniti sanno cauterizzare ferite, procurare conforto e tepore, farsi strumentali all’elaborazione degli alimenti; l’antico ferro da stiro di Zia Nellie, con il serbatoio riempito di carbone incandescente e il fondo piatto, a sera, impropriamente usato, le offre una minima ma sostanziale consolazione e di giorno con il calore e il peso, ha il potere di levigare pieghe e dossi dai tessuti, di renderli docili e lisci al tatto:
similmente al bohémien Georg Kempf, la voce narrante dell’impressionante romanzo epico/storico/ mitologico di Slobodan Šnajder 1, L’età del bronzo, (ovvero in traduzione. La riparazione del mondo2) che, tornato a casa in Slavonia dalla sua “piccola guerra polacca” attraversando indenne un infinito mare di guai, nella inquieta Zagabria del secondo dopoguerra si unisce in matrimonio civile (senza fiori e festeggiamenti né scambio di anelli, relitti di consuetudini borghesi) con Vera, partigiana comunista ortodossa. Lui è poeta, ama alzare il gomito, è stato un noto tombeur de femmes, ma “in una situazione come quella, governata da puritani meritevoli e ortodossi, i bohémien apparivano come una sorta di lusso, ferri da stiro buoni per appianare una realtà grinzosa.”
L’età del bronzo
“Il mondo è pieno di uomini in fiamme, fa caldissimo nel mondo…” riflette il Georg Kempf di cui sopra, un discendente dei Volksdeutscher emigrati nel 1769 dalla Germania imperiale immiserita dalle carestie verso una terra al di là di sette selve, una Slavonia che i messi teresiani (i pifferai di Hamelin) erano venuti a decantargli come terra del latte e del miele. Dopo centocinquant’anni la Germania torna a cercare quegli antichi emigrati, invitandoli a impugnare le armi per difendere una patria che non sentono più: nel corso di tante generazioni i nomi e i volti e la lingua sono cambiati, i contadini lontani pronipoti dei coloni tedeschi non sanno nulla del Reich né delle gesta di Hitler: l’essersi integrati in terra slava non muterà però la tragica sorte di sofferenza e deportazione loro fissata dalle Moire nel dopo guerra. Georg, che a Nuštar in Slavonia si chiama Đuka e ama leggere, corre dietro alle sottane e compone versi, nel 1943 finisce arruolato volontario-obbligato nella Divisione Galizia delle Waffen SS dislocata su territorio polacco; della Polonia lui conosce solo quello che ne ha letto nei romanzi storico-patriottici di Henryk Sienkiewicz, soprattutto nel famosissimo Col ferro e col fuoco del 1884, ambientato, per sfuggire alla censura degli occupanti tedeschi, nella Polonia oppressa e divisa del 1600, e scopre adesso, in qualità di Sturmmann del Reich, un forte movimento patriottico sotterraneo polacco che vuole riscattare armi in pugno un paese che nel 1939 è stato ancora una volta- quale?- tagliato a pezzi come un cadavere, squartato, amputato, calpestato, incendiato. Considerato un anello debole e poco zelante nel morale combattivo delle formazioni hitleriane specializzate nella tecnica della terra bruciata (“non era nato in Germania e quindi non si era battuto contro comunisti e socialdemocratici nelle strade delle città tedesche, non aveva devastato le botteghe degli ebrei, non aveva partecipato alle fiaccolate e ai roghi dei libri, non aveva fatto nulla di ciò che fa un bravo membro delle SS prima di entrare nell’ala armata dell’ordine cavalleresco”), ferito in un’azione dai patrioti polacchi, passa di incendio in incendio, da Treblinka a Auschwitz, e vede con i suoi occhi come “…le Waffen SS si battevano con più fanatismo, si lanciavano nel fuoco…”. Disertore e poi partigiano, Georg sfugge con perfetta strategia d’uscita al fato di persecuzione fissato dalle Moire e alla corona di fiori portata dalle Waffen SS al suo funerale.
Spade infuocate nei giardini del Sultano
Quest’anno non sarà permesso viaggiare e assembrarsi neppure dopo l’attenuazione del lockdown, pare, ma come già l’uscita per l’equinozio di primavera del Foglio Letterario consolò le ansie e le irrequietudini di inizio confinamento, così quelle previste nella imminente data emblematica del solstizio d’estate e successivamente in quella del 22 ottobre, compenseranno la frustrazione di non potersi abbandonare come ogni anno al flusso rinnovatore delle arcaiche “ley lines”, i viadotti energetici di Stonehenge e Abu Simbel.
L’annuncio tematico per il numero in uscita il 21 giugno, “a ferro e fuoco”, ha scatenato una folla di immagini, di ricordi, la memoria, dice il poeta, arriva da stelle estinte da tempo; una spada brandita da guerrieri in costume orientale e circondata di lingue di fuoco. Dove e quando e come….
“New Delhi non era affatto nuova. I suoi ampi viali racchiudevano una gemebonda necropoli, un cimitero di dinastie. Alcuni dicevano che erano sette le città di Delhi, e che quella attuale era l’ottava; altri ne contavano quindici o ventuno. Tutti concordavano sul fatto che le rovine di queste città erano senza numero. … Per quanto si sforzassero gli urbanisti per creare insediamenti moderni in cemento nuovo fiammante, era continua l’intrusione di torri fatiscenti, vecchie moschee o antiche università islamiche – madrasse – , che spuntavano improvvise nelle isole spartitraffico delle strade o nei giardini municipali, curvando la rete viaria e oscurando i fairways dei campi da golf. “
Dalla seconda delle otto Delhi di William Dalrymple, abitate e perennemente rigenerate da una legione di Djinn, gli spiriti benefici custodi della città, riemerge in un flashback lo storico quartiere di Hauz Khas, sorto attorno al capace reservoir idrico voluto agli inizi del milletrecento dalla lungimiranza del sultano Alauddin della dinastia dei Khilji, (per altro considerato dagli storici un mostro, capace di ogni sorta di nefandezze) per rifornire di acqua gli abitanti della città di Siri, baluardo contro l’incombente minaccia delle orde mongole che pressavano ai confini dello Hindustan. Vuole la leggenda che il nome Siri (in hindi sirsignifica testa) venisse attribuito alla Fortezza perché nelle sue fondamenta erano state interrate le teste di ottomila soldati mongoli uccisi in battaglia (sarà palesemente esagerata la cifra al fine di esaltare le gesta del generale vittorioso? Come per i numeri del corona virus, non sapremo mai la verità). Tra le poche rovine che restano di quella città, è ancora visibile l’antica madrassa o scuola islamica la cui reputazione accademica, soprattutto in astronomia e antica medicina Unani, si estendeva al di là dei confini del sultanato, ed era architettonicamente così congegnata che anche nei mesi più torridi, (ricordate Forster, in “Passaggio in India”? April, herald of horror, is at hand, la calura estiva nella conca di Delhi inizia già in aprile, opprimente e pericolosa per ogni tipo di vita, aprile a Delhi non porta gigli, dell’aprile di Eliot, gli resta solo la crudeltà, April, the cruellest month), anche in un aprile già soffocante, tuttavia, il vento passando attraverso il labirinto di antiche mura si raffresca e dà refrigerio.
Hauz Khas è arricchito anche di una riserva naturale faunistica, il Park Beluchi, tramite il quale e alla fine di un lungo sentiero in mezzo a una foresta nella quale si aggirano cervi e caprioli, si approda a quel luogo di ristoro, detto Beluchi Restaurant, dove i kebab, prelibati a detta degli intenditori, vengono serviti da guerrieri in costume tradizionale del Punjab su una lama fiammeggiante simile a quella di San Michele Arcangelo in lotta con Satana.
Quella sera a tavola nel Beluchi Restaurant ebbi l’onore e il piacere della compagnia di Jože Pirjevec, amante del Kerala e noto autore di fondamentali opere di storia, scritte in una prosa così piana e avvincente che si fanno leggere come romanzi. Di quell’incontro l’insigne studioso ebbe poi a scrivere per un quotidiano sloveno una bella pagina tra analisi storica e garbato resoconto.
Dal Serto della montagna al “Diario” di Srđan
E dal prologo dell’imponente volume del prof. Pirjevec sulle guerre jugoslave 1991- 1999, riporto qui la citazione da Il serto della montagna, poemetto epico pubblicato a Vienna nel 1947 dal principe-vescovo montenegrino Pietro Petrović-Njegoš in cui si canta il successo della Notte di San Bartolomeo montenegrina, ovvero lo sterminio degli infedeli (infedeli erano i turchi, ma invisi e odiati più degli stessi turchi, i cosiddetti “poturici”, i convertiti di sangue fraterno, apostati e rinnegati, che non essendo turchi, si erano turchizzati, nell’abito e nella fede religiosa) avvenuto la notte di Natale 1702:
“in tutta la piana di Cetinje, nessuno è riuscito a salvare la pelle per raccontare com’è andata. Tutti sono finiti sotto la nostra spada, tra quelli che non si sono inchinati al Gesù Bambino e non si son segnati con la croce di cristo. Solo costoro abbiamo riconosciuto come fratelli. Abbiamo incendiato fino alle fondamenta le case dei turchi, affinché non restasse traccia di questi nemici- parenti infedeli”.
Osserva lo storico che questo poema epico grondante sangue, narrazione tutta di ferro e di fuoco, “il padre uccise il figlio, il fratello uccise il fratello”, fu considerato non solo dai montenegrini ma anche dai serbi, di generazione in generazione, un “sublime inno alla libertà e all’identità nazionale, da cui trarre costante ispirazione” e aggiunge che “non a caso il montenegrino Radovan Karadži
, uno dei responsabili della mattanza bosniaca, ne portava sempre con sé il testo e ne leggeva ogni giorno qualche passo.”
Nel suo Le Tigri di Arkan, “un libro che odora di sangue”, avverte il prefatore, “come di sangue odorano i Balcani per tutto il decennio anni Novanta”, in uscita a breve per i tipi di Infinito edizioni, dopo alcuni mesi di ritardo a causa dell’emergenza virus, e che è da considerare un must per chi si interessi alla cruenta disgregazione della ex Jugoslavia, in particolare per i più giovani, spesso anagraficamente ignari di quel periodo di storia europea, Michele Guerra immagina un “Diario” scritto da un membro della omonima formazione paramilitare, al comando del rapinatore, spia UDBA e ultrà Stella Rossa Željko Raznatović, detto Arkan, il condannato per crimini contro l’umanità dalla faccia di bambino, ebbe a dire Boris Johnson in un’intervista del 1999.
p.141 “Le Tigri del plotone di Rugby si spingono fino al municipio. Bloccano ogni potenziale sospetto in circolazione e sparano senza remore: un anziano in bicicletta viene freddato e lasciato sanguinante sull’asfalto solo perchè aveva urlato dallo spavento. Cominciano a girare per la città automobili coi fazzoletti bianchi esposti dai finestrini. Venti o trenta persone sono già disposte in fila, con le mani al muro e le gambe allargate, pronte per le perquisizioni, sulla via dedicata a Nikola Tesla. Vengono fatte entrare in una macelleria halal lì accanto. La porta viene chiusa, un vetro sfondato. Almeno cinque granate vengono lanciate all’interno, poi si infierisce coi kalashnikov. Chi appare ancora vivo, nel silenzio conclusivo, viene finito con un colpo alla testa.”
Il personaggio principale e voce narrante dell’impressionante “Diario” immaginato da Michele Guerra è Srđan, il paramilitare serbo che durante il massacro di Bijeljina prende a calci la testa di una donna bosniaca, morta, stesa a terra accanto ad altre due vittime; quell’immagine, il ritratto di spalle scattato dal fotoreporter americano Ron Haviv cui il criminale Željko Raznatović Arkan aveva concesso di seguire e immortalare fotograficamente le gesta del suo gruppo, farà il giro del mondo. Nella descrizione della giornalista Azra Nuhefendić, Srđan è giovane, alto, snello, con il lanciarazzi a tracolla, nella mano destra un kalashnikov, nella sinistra una sigaretta accesa, un nero passamontagna sotto la spallina e occhiali da sole in cima alla testa… a confronto dei rozzi colleghi “assetati di sangue” (giudicando dai loro sguardi), sembra un “cittadino”, una persona più fine. Ma è proprio lui con lo stivale nero destro alzato che sta per colpire la testa della donna morta…Lo fa con scioltezza, come si prende a calci una lattina vuota, un pallone…e lo fa sapendo di essere fotografato, lo testimonia Ron Haviv, autore dell’immagine.
Dal “Diario” di Srđan (Le Tigri di Arkan p. 139): “Sono a volto scoperto e sto fumando. Perchè per uccidere full-time devi saperti rilassare, nei momenti giusti. Ho estratto gli occhiali da sole dalla borsa, quella che vedete pendere sul mio fianco destro. […] Ho sistemato il lanciarazzi RPG che porto a tracolla, sulla schiena, come fosse un tubo portadisegni da architetto. Non getto via la sigaretta, no. Il gesto deve apparire istintivo, di disprezzo gratuito. Inizio la corsa, e vedo la schiena dello yankee davanti a me. […] Sta attendendo che Dragan e Bokser entrino nell’inquadratura con il volto puntato altrove, distanti dai cadaveri. Vuole un totale spezzato in due: la fredda indifferenza verticale degli assassini da un lato, la morbida pietà orizzontale delle vittime dall’altro. Io mi precipito nel mezzo, come un graffio. E congiungo quei due segmenti inconciliabili sferrando il calcio. Click. “
Jože Pirjevec estrae da Naš slučaj, raccolta delle interviste 1990- 1993 tenute a leader di partito, rappresentanti dell’intellighenzia serba etc., dalla giornalista Lila Radonjić, un passo dell’intervista 1992 al patriarca Pavle: ”Che cosa dovrebbero fare i serbi, si chiedeva il patriarca, se volessero vendicarsi in maniera adeguata dei delitti , di cui sono stati vittime in questo secolo? Essi dovrebbero seppellire gente viva, dovrebbero arrostirla sul fuoco, dovrebbero sgozzarla, smembrare i figli davanti agli occhi dei genitori. Ma i serbi non hanno mai fatto nulla di simile neppure alle bestie feroci, per non dire degli esseri umani”.
A smentire il truce ragionamento del patriarca, il 1.o aprile 1992 Bijeljina, cittadina a maggioranza musulmana situata nella Bosnia settentrionale a pochi chilometri di distanza dal fiume del famoso romanzo di Ivo Andrić, fu assalita dalle Tigri del comandante Arkan, che “reduci dai massacri di Vukovar, ben armati e addestrati, […]diedero il via alla mattanza”.
In tre giorni di eccidio, dal quale la popolazione non era preparata a difendersi, 500 musulmani furono uccisi e gli altri costretti a fuggire. “Si verificarono così a Bijeljina proprio quegli orrori che secondo il patriarca i suoi connazionali erano incapaci di commettere.” E molti dei quali rimasero impuniti.
Lo stesso Srđan del libro di Michele Guerra non ha nessun imbarazzo a dichiararlo apertamente, sono vivo, vivo a Belgrado, scrive nell’immaginario “Diario” e ancora: “Io non sono mai stato accusato, né denunciato per alcun crimine di guerra. Mai. Non sono stato indagato, arrestato o incarcerato per ciò che quella foto ritrae. Né sono stato portato sul banco degli imputati di alcun tribunale esistente.”
I tumulti mondiali sollevati dall’uccisione di George Floyd invadono la pagina, mentre concludo le mie divagazioni sul ferro e sul fuoco. Anche in questo caso, è un’immagine che svolge il ruolo di simbolo “capace di scuotere le coscienze assuefatte o paralizzate dall’orrore”.
Come per la scioccante fotografia di Ron Haviv, che in un batter d’occhio spiegò la “pulizia etnica” a quanti nel mondo stentavano a credere in una simile follia nel cuore dell’Europa e del XX secolo, ma non frenò il massacro che continuò per altri tre anni (per non dire dell’attuale situazione della Bosnia Erzegovina, preda della corruzione e minacciata di conflitto civile dai propri stessi indegni governanti), così Minneapolis, quel ginocchio che preme sul collo, le invocazioni dell’uomo immobilizzato e soffocato hanno scatenato indignazione, appiccando il fuoco alla miccia della rabbia sociale. Gli scontri continuano, spesso degenerano in violenza e molte sono le vittime di altre gravi brutalità, ma il problema non si risolve. È raro che passi una settimana negli Stati Uniti senza che si venga a sapere che un afroamericano è stato ucciso dalla polizia o da autoproclamatisi tutori dell’ordine. Ogni volta i media gridano allo scandalo, le proteste mettono a ferro e fuoco negozi e quartieri cittadini, si auspica da più parti una riforma dei metodi polizieschi: ma ingiustizie e crimini perpetrati per razzismo e sessismo, per odio e timore del diverso, talvolta per pura sadica prevaricazione sul più debole, su chi è in minoranza, in posizione di svantaggio, rimangono impuniti, o solo apparentemente puniti.
Patrizia Raveggi
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