Patrizia Lessi – The Ring – Cecità di José Saramago VS 1995 Blindness di Fernando Mereilles, 2008
Uno dei fondamenti individuati da Claude Lévi-Strauss in ogni società, sia essa in senso antropologico elementare o complessa, sta nella spartizione oculata e gerarchica dei suoi beni più preziosi: il cibo e le donne. La loro circolazione attraverso rituali di scambio all’interno di una tribù o fra comunità distinte garantisce rapporti di pace, serenità sociale, equilibrio. Non sono lontani i tempi in cui nella società occidentale la donna ha ricoperto questo ruolo e tutt’ora è ampio il dibattito sulla sua oggettificazione e riduzione a bene da fruire. Forse è anche per questo che il premio nobel Josè Saramago affida a una donna la facoltà di continuare a vedere quando il resto del mondo progressivamente la perde. Unica testimone dell’imbarbarimento a cui portano privazione e paura, la moglie del medico cieco si finge non vedente per seguire il marito nell’ex manicomio in cui lui, la ragazza con gli occhiali scuri, il vecchio e tutti gli altri personaggi senza volto e senza nome vengono momentaneamente internati in attesa di una cura, abbandonati a se stessi, col solo incerto conforto di una razione di pasti giornaliera e lasciata all’ingresso dell’edificio. In un altro romanzo, con un diverso autore, forse quei ciechi avrebbero usato quell’isolamento per fondare una piccola società equa, aiutandosi l’un l’altro e rispondendo con la mutua solidarietà al cieco antagonismo e alla cultura del cane mangia cane che li ha condotti dove sono e che noi lettori conosciamo benissimo essendoci indubitabilmente immersi. Ma questa è la storia di Saramago che al di là della traduzione italiana intitola il proprio scritto Ensaio sobre a Cegueira, Saggio sulla cecità. Così nell’invenzione di una storia si mostra la Storia nuda e cruda di quello che siamo e che non scompare sotto alla cortina di raffinatezza e complessità altrimenti chiamata progresso umano. La cecità dilagante non ha nulla a che fare col riempirsi degli occhi di tenebre o col buio della ragione; è un bianco abbagliante quello che dilaga mutilandoci tutti cosicché è la luce di ciò che dovrebbe distinguerci dalle bestie a rendere sempre più sottile quel confine fino a suggerire che la ragione da sola non può illuminare il cammino di chi ha avvolto l’anima nell’oscurità.
Soli e disperati i ciechi soccombono alla legge del più forte fra le stesse mura in cui avrebbero dovuto unirsi per sopravvivere e può essere interessante inserire qui un primo confronto con il film che Fernando Mereilles ha tratto dal romanzo: se per il regista brasiliano a rendere uno dei reparti in cui alloggiano i ciechi più forte degli altri è il possesso di un’arma, per Saramago è la presenza di un cieco dalla nascita, vedente da tutta la vita con gli altri sensi, a determinare la legge del più forte che in entrambe le versioni si declina come anticipato all’inizio di questo articolo: l’accaparramento di tutto il cibo, anche di quello che non può essere consumato e che si preferisce far deperire piuttosto che condividere con gli altri reparti e il ricatto di fornirlo solo in cambio della consegna per alcune ore delle donne per soddisfarne il desiderio sessuale. E per sancire, per dirla alla Lévi-Strauss, il definitivo e assoluto potere. Le donne vengono quindi a turno cedute da ogni reparto eroso da fame e disperazione, messe in fila nei corridoi e spinte, l’una stretta alla mano dell’altra, ad assolvere con la loro sopraffazione il ruolo di coloro che nutrono garantendo che vengano concesse le scorte di cibo agli uomini che le cedono e a se stesse. Fino a una resa dei conti finale fra colei che vede e colui che è più forte e a una tabula rasa letterale e simbolica che determinerà l’uscita dalla struttura e il contatto con ciò che nel frattempo il mondo è diventato. Nel bianco latte in cui tutti ormai brancolano la violenza irrompe con la densità del sangue, il calore dei corpi, l’odore marcescente di strade inghiottite da degrado e immondizia. Nelle pagine e nelle scene persone e città appartengono ad uno e a nessun posto, perde importanza il luogo dove l’umanità brancola.
E sebbene pellicola e romanzo si chiudano concedendo un piccolo, vitale appiglio di speranza che forse attecchirà fra le macerie di ciò che siamo stati, intatta rimane l’inquietudine di chi ha letto il libro o seguito il film. Il dubbio che questa possa non essere una futura fine del mondo e che cieca l’umanità lo sia già da un pezzo. Che ciechi sono gli occhi rispetto alla visione del presente, tanto si spingono più in là, nella ricerca di senso proposta dalle utopie o dalle distopie del domani. Cosicché impellente è il bisogno di imitare la protagonista nell’alzare gli occhi al cielo per infrangerli in un lattiginoso pallore e rovesciarli immediatamente sulla città brulicante di colori e movimenti ancora in grado di dare forma e senso ai nostri giorni.
Patrizia Lessi
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