Frank Iodice -Juan Rodolfo Wilcock, o Della sprezzatura per
Juan Rodolfo Wilcock era uno scrittore argentino, amico di Borges, Bioy Casares e Silvina Ocampo. Ecco come parla di loro in una sua nota del 1967: «Borges rappresentava il genio totale, ozioso e pigro, Bioy Casares l’intelligenza attiva, Silvina Ocampo era tra quei due la Sibilla e la Maga, che ricordava loro in ogni sua mossa e in ogni sua parola la stranezza e la misteriosità dell’universo. Io, di questo spettacolo inconsapevole spettatore, ne rimasi per sempre affascinato». Già autore di opere apprezzate in Sudamerica, negli Anni Cinquanta decide di trasferirsi in Italia. Viveva a Lubriano, un paesino non lontano da Porto Ercole, dove è morto il Caravaggio. «Come scrittore europeo ho scelto l’italiano», diceva, e scriveva direttamente in italiano, eseguendo un lavoro di reinvenzione linguistica simile a quello di pochi altri nella storia letteraria, Nabokov, Beckett, o magari Jhumpa Lahiri: scrivere in una lingua che non è la tua lingua madre, una sfida con se stessi molto più complessa di una traduzione di un testo proprio o altrui, ripensarlo cioè in una nuova lingua e quindi in un nuovo sistema di regole implicite che ogni struttura richiede. E ci ha lasciato un contributo vastissimo, che comprende traduzioni, saggi, poesie, romanzi, racconti, nonché numerosi articoli su giornali che lo supplicavano di scrivere per loro, come «La Nazione» e «L’Espresso». Era di madrelingua spagnola e tedesca, questo multilinguismo rendeva il suo stile più ruvido, diretto, ma non in termini linguistici, perché, anzi, leggere Wilcock può risultare in un certo modo impegnativo, la sua non è una prosa paragonabile a quella da tre parole per riga, come impone la moda del momento tra gli autori “raccattafollower”, ma una parola virtuosa, elevata, colta. Si occupava soprattutto di critiche di spettacoli a cui non assisteva o di recensioni di libri che non esistevano. Roma per lui era lo spunto di riflessione da cui partivano le più divertenti e profonde critiche al nostro paese, critiche irriverenti, al limite della blasfemia. Roma era il cuore pulsante dell’inconsistenza italiana, un’inconsistenza fatta di raccomandazioni, favoritismi e clientelismo, su cui si fonda la nostra società da tempi immemori.
Nella vita privata provava una vera «sprezzatura nei confronti dei beni materiali», le sue opere infatti non sono mai diventate il mezzo per sollevarsi da questa sua situazione, a cavallo tra la miseria e l’immensa ricchezza morale: la maggior parte della sua produzione in lingua italiana è stata pubblicata postuma. La sua sprezzatura però lo ha salvato dalla fame di successo e di arricchimento, una fame che si insegna ai bambini fin da quando esistono i voti nelle pagelle. Vestiva alla buona e rimaneva rintanato per giorni se aveva qualcosa di interessante da scrivere. La magia del paesino sull’argentario lo aiutava forse. Oppure si trattava di quella certa pazzia di alcuni individui che hanno scoperto il segreto dei meccanismi del sistema e proprio per questo vengono isolati. Infatti, se da un lato l’umorismo di questo autore merita un posto tra i grandi della letteratura, dall’altro va detto – per dovere di completezza nel dipingere il quadro della letteratura italiana di allora, e forse anche di oggi – che l’umorismo, quello inteso come ricerca infinita nella tragica comicità della specie umana, e non quello demenziale dei libri e film panettone che si impacchettano sotto Natale, ecco, questo tipo di umorismo in Italia non riscuote poi un grande consenso.
Rodolfo Wilcock si è circondato di voci importanti del panorama culturale, Alberto Moravia, Elsa Morante, Roberto Calasso, Ginevra Bompiani, nelle quali deve aver lasciato un’impronta indelebile. La sua opera è vasta e di uno spessore tale che ci si sente indegni ad avvicinarla per analizzarla. Tre allegri indiani, pubblicato dall’Adelphi, è un’esplosione d’inventiva selvaggia. La sua lettura distrugge le sicurezze fittizie in cui ci rifugiamo per evitare di pensare umilmente alla sola certezza che la vita ci ha riservato: la morte. Wilcock prende le nostre certezze, le sminuzza in tante piccole verità e ci restituisce la menzogna collettiva. Ne La sinagoga degli iconoclasti (Adelphi 1972), la lingua italiana trova la sua apoteosi stilistica, scopriamo le biografie di una trentina di inventori, scienziati, filosofi, geni di ogni sorta, uomini senza i quali ci domandiamo come abbia fatto l’umanità a sopravvivere fino a oggi, insomma, uomini illustri. Questo termine, illustri, ci fa venire in mente Giuseppe Pontiggia, che vent’anni dopo ha scritto un libro simile, una specie di fratellino minore, oppure Vite brevi di uomini eminenti di John Aubrey, perché, come dice Roberto Bolaño, «siamo tutti autori dello stesso romanzo», proprio pensando a quella certa connessione che c’è tra gli autori anche prima di entrare in contatto gli uni con gli altri.
«André Lebran, ricordato, modestamente ricordato, anzi non è ricordato per nulla, come inventore della pentacicletta o pentaciclo, ossia la bicicletta a cinque ruote». E così è in grado di continuare, per più di duecento pagine, costruendo contesti, lavorando su campi semantici e terminologie di volta in volta settoriali, scelte a seconda dell’invenzione, dell’innovazione rappresentata dal soggetto preso in analisi. Un altro esempio? Lo scrittore Carlo Olgiati, di Abbiategrasso, il quale, sulla soglia degli ottant’anni, diede infine alle stampe la sua opera fondamentale in tre volumi, Il metabolismo storico, pubblicato dalla casa editrice «La redentina», che altro non era che una fabbrica di dolciumi di proprietà dello stesso autore. Con le sue biografie di geni sconosciuti, surreali ma verosimili, ironiche, visionarie, di un’inventiva spiazzante, che ci ha messi a nudo, poi ci ha rivestiti meticolosamente, le calze, le mutande, i pantaloni, la camicia e la cravatta, per chi la porta, e anche per chi non la porta. È uguale.
Lo stesso Bolaño ne parla così: «Giunse nelle mie mani La sinagoga degli iconoclasti, in un inverno freddo e umido, e ricordo ancora il piacere enorme che le sue pagine mi diedero, e anche il conforto, […] il libro di Wilcock mi restituì l’allegria, come riescono a farlo solo i capolavori della letteratura che sono al tempo stesso capolavori dello humor nero».
Autore anche di numerose liriche, di forte potenza onirica e preziosa eleganza. Le sue poesie rappresentano la sintesi della sua rinascita linguistica, della sua avventura affascinante nella lingua italiana; sarebbero degne dei programmi scolastici dei nostri figli, insegnerebbero loro che oltre all’ermo colle e quel ramo del lago di Como, l’Italia è fatta soprattutto di contraddizioni. Un argutissimo narratore, un eccelso saggista e traduttore, ma soprattutto un uomo buono. Questa è una conclusione che traggo nel constatare che solo un animo generoso è capace di offrire al mondo un universo interiore così vasto, senza chiedere nulla in cambio, né soldi, né premi, né riconoscimenti di alcun genere. Perché la grande letteratura può servire anche a questo, ad arricchirci spiritualmente, confortarci, salvarci la vita, comprendere qualcosa in più del perché soffriamo così tanto a stare al mondo. E nel lasciare la mano a questo immenso uomo di lettere, immortale in ogni sua parola, proprio come coloro che trasformano in letteratura tutto ciò che toccano, raccontando «la stranezza e la misteriosità dell’universo», sorridiamo per l’ultima volta leggendo un estratto de Il reato di scrivere (Adelphi 2009), un piccolo saggio in cui i critici letterari sono messi alla gogna e i giovani autori, saccenti e supponenti, partecipano a battute di caccia in cui la selvaggina è il loro stesso ego. Servirà a noialtri a capire che non siamo niente di più che «un filino di merda nell’universo» – queste non sono parole di Wilcock, e neanche nostre, ma di José Saramago – e servirà anche ai lettori, perché, se non lo hanno ancora capito, non è solo chi vince premi a meritare un posto nella storia letteraria. Wilcock lo aveva capito, purtroppo, e ce lo ha spiegato nel dettaglio, come si «somministra» un premio letterario:
«Gli autori vengono coricati ciascuno sul suo letto, su materasso un po’ duro, con la testa lievemente sopraelevata e un cuscinetto sotto il bacino, le gambe semi flesse, divaricate, la camicia tirata verso lo sterno, le gambe semicoperte. Gli autori dovranno respirare tranquillamente, rilasciare i muscoli, lasciar fare con serenità. Avranno tra le gambe una bacinella.
Dopo un intervallo di consultazione, la giuria prende il premio letterario, ben lubrificato, l’inserisce improvvisamente in uno degli autori e lo spinge avanti con dolcezza. Il premio procede, in genere, senza difficoltà per 10-12 cm. Se si avverte una resistenza, si ritira alquanto il premio, lo si scuote leggermente e si ritorna a spingere con delicatezza, imprimendo all’autore qualche movimento di rotazione, fino alla totale premiazione.
Gli altri autori possono nel frattempo rivestirsi. Dopo l’operazione, il premio letterario va accuratamente lavato, asciugato e riposto».
Anzi, non lasciamoci con i consigli per gli scrittori esordienti, perché tanto, come si sa, non li ascolteranno. Ma con la menzione di un altro capolavoro, Il libro dei mostri, in cui Wilcock, in una foga incontenibile di creatività dal titolo fino all’ultima nota, è stato capace di concepire una miriade di nomi strani (nell’accezione bolañiana di questo aggettivo) e i relativi proprietari, ammassi di peli, uomini che crescono al contrario, che aumentano di volume a dismisura, o fatti di acqua e strani liquidi, o mere illusioni ottiche, così tante invenzioni, brillanti e grottesche, frutto forse della mescolanza delle varie lingue che conosceva, invenzioni così visionarie che tutti noi, messi insieme in una stanza, non saremmo in grado di concepirle. Lui, invece, arriva dall’Argentina e le mette d’un colpo in un solo libro, così, come per gioco, un gioco che nessuno ha saputo ripetere, finora. Memmo Gaibisso, Resio Bombi, il Cardinale Mondo Tuto, il Dott. Piramide Veso, non pochi dei quali incarnano personaggi realmente esistiti che il lettore si divertirà a individuare, ci fanno compagnia mentre ci salutiamo, stavolta sul serio, e ripensiamo a un genio immortale, al quale l’Italia ha concesso la cittadinanza un anno dopo la morte, un autore capace di giocare, ma giocare sul serio, con le parole, soprattutto quelle degli altri, quelle scelte male, che nelle sue mani assumono una forma sorprendentemente nuova. Autori del genere non sono incanalabili, per il semplice motivo che sono uomini liberi, capaci di destrutturare i capisaldi letterari, gli araldi politici di un intero paese sbattendoci in faccia ciò che realmente siamo. Dei mostri? Non proprio. Adesso non esageriamo. Ma probabilmente qualcosa di molto vicino.
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