Dardano Sacchetti – Panchina N°1
Panchina
(non solo briciole per pennuti
ma punti di vista e riflessioni babeliche di un mestierante ribelle)
Scarciofolando in cantina, tra ventricine paste nere e riesumazioni notturne, m’è apparso improvvisamente il violino del nonno. Ero già comunista, quindi non mi feci, grande peccato, affascinare dalle note di quel violino che arrivavano dall’altra Scala, non quella che scendeva nel buio. Oggi quelle note le sento leggendo l’esilarante post del fratello minore del commissario Montalbano. Era il 1948 quando ho fatto la prima campagna elettorale per il partito ma ho smesso di votarlo dopo la resistibile esibizione della poderosa macchina da guerra. Di quelle rovine, rimasero curiosità e un po’ di nostalgia per gli anni vissuti di corsa cantando a squarciagola slogan da pannolini miracolosi. Un esile filo di Arianna spezzato irrevocabilmente, che ha squagliato l’idea di essere ancora utile e attivo come il sole d’agosto ad un pugno di neve.
Improvvisamente in panchina!
Panchina? come un pensionato a dar briciole ai piccioni?
Nooo… più lucido ed incazzato, finalmente libero di rileggere da un’altra angolazione l’onda di piena che ha portato a valle di tutto. È ora di rovesciare il vaso di Pandora, di recuperare pietre d’angolo diverse, per costruire altri racconti, altri plot, altre armonie. Dovevo nascere falegname, occuparmi di sgorbie, pialle e code di rondini, invece ho scoperto di essere un osservatore, un ranger perennemente in movimento, affamato di cose eventi e sentimenti.
L’origine della panchina.
Un oggetto all’apparenza privo di fascino se non l’attesa di un Godot, in verità, come la finestra che dà sul cortile, un luogo privilegiato, intimo per spiare, guardare, vedere, conoscere l’intero condominio, quindi la realtà i comportamenti i sentimenti il mondo.
Osservare come i tre contadini al tramonto.
Non ho briciole, ma visioni. Riaffiora prepotente il cadavere di un uomo a Lincoln square. Mancava poco a mezzogiorno, sarà stato ottobre, fresco e luminoso. L’asfalto era pieno di vita, formicolava di attività e bramosie occidentali. Tutti inseguivano qualcosa tranne quel cadavere, steso di traverso sul marciapiede, ingombrante ma non tanto da impedire un rapido scavalcamento senza ottenere neanche uno sguardo di curiosità e tantomeno di pietà. Era semplicemente un rifiuto. Un cadavere anonimo, senza alcuna storia né funzione e tantomeno importanza. Solo un cadavere, senza alcun fotografo che indaghi a Londra o New York (ragazzi occhio alle citazioni). Non c’era delitto a Lincoln square quel mezzogiorno d’ottobre. Solo indifferenza. Rimozione. Desiderio profondo di non guardare, di impedire all’occhio anche la minima percezione. La ragazza coi tacchi a spillo lo superò con un saltello elegante, quasi sexy.
Morte, paura di morire, di essere ucciso. Si parlano lingue diverse, si usano alfabeti diversi, si ama in modo diverso, si hanno fedi diverse, ci si nutre in modo diverso e con cibi diversi, si socializza con usi e costumi diversi. C’è un’unica cosa che ci rende uguali, un sentimento che ogni essere umano percepisce nello stesso identico modo: la paura di essere uccisi. Di essere preda di un nemico, qualsiasi nemico, anche immaginario. Come tutti gli animali, l’uomo ha sviluppato il principio di territorialità. Il proprio territorio è la tana sicura dove si dorme, si mangia, ci si riproduce. Il luogo che permette la sopravvivenza, quindi da difendere ad ogni costo. Perché se perdi l’habitat ti resta solo la casa e se perdi questa ti resta solo il corpo, quindi la mente ultimo baluardo che ci si illude di proteggere pregando o chimicamente.
La territorialità è tutto. Per questo Abramo ha lasciato Ur dei caldei. Per cercare la terra promessa dove avere casa, discendenza, un futuro per evitare d’essere un cadavere su un marciapiede.
Faccio cinema e lo faccio nel modo peggiore senza alcuna eleganza nè lealtà. Invento mondi e vite per plasmarle, dominarle, determinarle nei loro archi narrativi come voglio, appagando il mio ego, saggiando le mie reazioni alle varie opzioni. Per far questo osservo, guardo oltre le maschere che ognuno indossa per celare le proprie fragilità. Capisco chi conosce il mare e teme la tempesta entro cui navighiamo, dove il senso della vita sfiora l’eroismo ma spesso svanisce nella mediocrità. Le vite degli altri sono spesso inventate all’insaputa di chi le interpreta, Il fratello di Montalbano non immaginava che le sue dimissioni avrebbero sgretolato l’habitat di centinaia di migliaia di militanti: via il territorio, via l’identità, via il sol dell’avvenire. Altre dimissioni potrebbero facilitare l’arrivo dei vaccini. La domanda è: la realtà è fatta di materia diversa dal sogno? Di questo parleremo, mentre ridipingo la mia panchina spersa in un parco qualsiasi dove un’alba livida sorge su una discarica di rifiuti, abbandonata a sè stessa, alla periferia di una città degradata, simbolo di un progresso malato. Dai rifiuti affiorano, una ad una, figure umane che si muovono incerte e in modo diseguale. Sono una dozzina, uomini e donne, completamente nudi ma infarinati da una polvere biancastra. Hanno capelli scarmigliati e sguardi da folli. E sono folli, malati mentali estratti dal limbo del loro assurdo e trascinati lì a recitare scene che si confondono con fatti: l’avvocato dei servizi volato a Milano per salvare la figlia ed evitare la bomba, l’uomo della Digos che sobbalzò al fantasma del Divo, l’autista con i 500 milioni di lire in contanti, gli zombies sul ponte di Brooklin, l’aula sesta della facoltà di lettere, Freddy Mercury seduto alla mia destra e Sonny Rollins col suo sax. Sotto la pioggia battente, una figuretta esile, scura, incazzata, attraversa il parco. Sfiora la mia panchina. Vedo che tiene per la maniglia un televisore, inutilmente protetto da un pezzo di plastica trasparente.
Si chiama Alice, sembra l’eroina di un fumetto dark. Ha poco più di vent’anni, occhi profondi, tratti inquieti, tanti orecchini di scarso valore, e capelli di un colore improbabile che tradiscono un’infantile volontà di trasgressione; ma la bocca è carnosa, da donna. Suscita pensieri. Ho aperto un file e cominciato a scrivere una storia ma so già che voglio parlarvi di una generazione che ha rollato la prima canna con allegria davanti ai quattro fiumi, ignorando che la valle della Bekaa era in attesa e che sarebbe stato sempre più difficile distinguere un’inquadratura da film da un attimo di vita vissuta.
La panchina porta a confessare…. o inventare storie che hanno l’odore sgradevole della realtà.
Dardano Sacchetti
(Foto da: https://lospecchiodiego.com/2020/03/ )
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