Patrizia Raveggi – Ilario Principe.
Non ti dirò il luogo e il paese ma ti dirò il nome. Si chiama Bruna o meglio Brunilde, che è il nome con cui è stata battezzata quasi a sfidare un regime che del battesimo e di tante altre cose legate all’odor d’incenso non sapeva cosa farsene. È una bambina di dieci anni, ma potrebbero anche essere nove o dodici perché la mia memoria sulle cifre sembra sempre sul punto di vacillare. Diciamo che Bruna ha dieci anni, poiché potrei contare per ognuna delle mie dita ciascuna delle sue individuali risposte al doloroso mistero che è la sopravvivenza. Vive Bruna nel Castello. Dalle sue parti il castello non è ciò che siamo abituati ad immaginare dalle nostre parti, o forse dalle parti della nostra fantasia. Il Castello al suo paese si chiama Kala, non è un singolo, isolato edificio tutto torri e mura e merli che ospita il castellano e la sua corte; è invece un’intera città fatta di pietra, con le case e le strade e i cortili, e naturalmente anche le mura e la residenza fortificata del vecchio castellano, cioè di colui che detiene il potere di vita e di morte su tutta la comunità che all’interno del circuito di pietra trova riparo e protezione. Sono macchine da guerra che il tempo ha finito per appassire nel loro slancio funzionale e poi l’edera e il muschio hanno ricoperto di umori melanconici, quando non sono diventati attrazioni turistiche dove per mangiare una sola volta si spende più di quanto guadagna in tre anni la mamma di Bruna, un’operaia che tutti i giorni fa la spola fra il Castello e l’arcigna macchina per tessere alla quale rimane inchiodata per otto ore filate. Si entra nel Castello da una bella porta in pietra che brilla lucida nel sole. Tutta la città è stata dichiarata monumento nazionale, patrimonio dell’umanità e baggianate simili, che servono solo a far arrivare a intervalli periodici seriosi individui con auto blu che misurano a larghi passi questa o quella strada e poi mandano ruspe e aprono cantieri puzzolenti mentre loro si rifugiano senza tanti riguardi nell’unico ristorante ad abbuffarsi delle specialità locali. Le strade sono tutte lastricate di pietra, i muri, pure di pietra e dai quali occhieggia qualche fico o un olivo rachitico, le fiancheggiano; poche e piccole le piazze, le chiese conservano autentici tesori di arte e cultura popolare che non hanno la magniloquenza arrogante della Controriforma di casa nostra. Le mura avvolgono tutte le cose, ma non si saprebbe dire fino a quando riusciranno a sopravvivere: con un gesto così naturale da rendere superflua qualsiasi spiegazione, per farmi vedere com’era bravo, il fratello più piccolo di Bruna ne ha svelto una grossa pietra e l’ha gettata nel precipizio sottostante e così penso si comportino tutti gli altri, bambini o grandi che siano. Io non sono entrato dalla porta grande. Le indicazioni mi avevano suggerito una scorciatoia e si sa dove le scorciatoie finiscono per portare: in posti assai diversi da quelli nei quali ci si voleva recare. Sono entrato da una porta piccola, secondaria, forse una porta di soccorso che permetteva alla popolazione di fuggire nei periodi di più grave crisi politica e militare. La porticina, o postierla nel linguaggio dei tecnici, non immetteva negli spazi urbani gerarchicamente definiti ma dava accesso a un quartiere secondario: mi sono così trovato in una strada periferica senza punti di riferimento privilegiati nell’orditura delle case e dei muri in pietra. Ho incontrato subito Bruna che, nell’ordine: ha spedito via l’amica che l’accompagnava, mi ha rivolto la parola in italiano dicendomi che mi avrebbe fatto lei da guida e mi ha preso per mano. Questo contatto fisico immediato può essere naturale in una bambina di dieci anni ma non certo in una bambina che vedi per la prima volta; e d’altro canto il prendere per mano una persona che non si è mai vista ha un significato inequivocabile qualunque sia l’età, il sesso o la posizione sociale di chi compie quest’atto, così semplice e così profondo insieme. Non è soltanto un gesto amichevole quanto una dimostrazione di partecipazione all’altrui esistenza, perché chi lo compie è solidale con te nel bene e nel male, clan tribù o villaggio allargato quali che siano le tue radici. Bruna parlava molto, in un italiano appreso per sentito dire. Dalla televisione o da altri visitatori occasionali, ciascuno dei quali poi le inviava la fotografia e le prometteva a breve scadenza una rapida chiamata in Italia, a Genova o Ancona o Bari o Brindisi snocciolava, senza accorgersi del tradimento implicito in quelle rassicurazioni. Non era stracciata e non sembrava malmessa, non almeno quanto il fratellino minore che se ne andava seminudo correndo fra pietre e cortili a rincorrere chissà quali giochi di libertà. Poi, quando mi ha portato a casa sua, ha aperto il frigorifero antico che troneggiava in mezzo ai mobili di regime e là dentro vi era solo acqua da bere e nient’altro. Un dolcetto fatto in casa è riuscito ad assicurarmelo strappandolo ad un’attonita vecchietta, una sua nonna mi ha precisato, ma ho molti dubbi in proposito, poi un fico secco e infine un pezzo di pane nero che sua madre si procurava dopo estenuanti code dal fornaio subito dopo essere rientrata dal lavoro. Un autentico festino. Mi ha portato in giro, Bruna, per il Castello. Mi ha mostrato a tutti gli abitanti del paese con l’orgoglio dell’uomo bianco che cattura il buon selvaggio incautamente penetrato nel suo territorio, sempre parlando, chiedendo, mostrando, curiosa e gentile, delicata e prepotente, innocente e smaliziata. Solo alla fine del secondo giorno, prima di lasciarci, mi ha chiesto dei soldi; ma sua madre, già ero uscito dalla porta grande avviandomi per la discesa, mi aveva raggiunto di corsa e quasi a scusarsi per l’invadenza della figlia, almeno così ho capito, mi ha consegnato due piccoli lavoretti al tombolo, uno con l’eroe locale e l’altro con l’aquila che ne è il simbolo, puliti e lindi nella loro grazia impotente, a innescare qualcosa di più di un semplice rinsaldarsi d’amicizia reciproca. Poi mi ha scritto, Bruna, a Natale, e mi ha chiesto, con la fermezza di chi in qualche modo ne ha diritto, molte cose: un mangianastri, le cuffie, l’ultima cassetta di Michel Jackson, tre orologi, un paio di scarpe numero 35, gli occhiali da sole, una cartella, qualcosa da mangiare e altro ancora. Sono poi tornato a trovarla. E a trovare altre persone altrettanto care. Ci sono andato con un po’ di paura perché le notizie che arrivavano da laggiù non erano delle più confortanti, ma ci sono andato perché mi è sembrato l’unico modo per manifestare una solidarietà di cui sembra essersi perso perfino il ricordo, a così breve distanza dal crollo di quei regimi che della solidarietà di classe facevano la pietra angolare delle loro teorizzazioni politiche. Naturalmente non era più la stessa cosa. Il frigorifero si era nutrito di vari prodotti della cultura occidentale e la tavolata preparata sulla piazzetta per onorare e far vedere l’ospite importante tradiva l’imbroglio di chi non arretra di fronte a niente pur di assicurarsi ciò che gli viene fatto credere degno d’esser avuto. Amara, Bruna mi ha fatto poi avere a domicilio una bottiglia di raki, un distillato atroce per l’anima e il corpo che mi sono guardato bene di assaggiare e ho lasciata in cantina ad attendere che ritornassero i messaggeri a riprenderselo. Non sono venuti. Forse hanno ritenuto più comoda la strada della prostituzione cui avviare uomini e donne in cambio di quel paradiso che arriva ogni giorno per chi sa consumare. Forse in quel paradiso c’è un posto anche per Bruna. Mi auguro di no.
La postierla
La fanciulla impietrita dall’occhio della Medusa, cosparsa di aghi di pino, attraversata da ombre, in chi legge si identifica istintivamente con la Bruna/Brunilde del racconto eponimo.
Segue immediata una serie di “non“.
Scoperta in chissà quale abbandonato chiostro o derelitto cimitero, e amorevolmente fotografata, quell’immagine, in cui gli aghi di pino e altre scorie vegetali hanno la funzione e la forza trascinatrice che funge da detonatore dell’immaginazione dell’osservatore, non riflette il volto della protagonista del racconto, è un segno, un simbolo, una presenza originata da una particolare inclinazione della luce;
il racconto non aspira ad essere un racconto bensì un susseguirsi di segnali, un campo di significati; immagine e sottostante testo sono da considerare Fotosemie, segni di luce-
che possono suscitare interrogativi in chi vede e legge, una sorta di poesia diversamente strutturata
l’autore non è un Autore (non vuole esserlo), si ritaglia un ruolo di presenza anonima e rifiuta presentazioni ed etichette; l’auspicio che nel suo messaggio possano riconoscersi in molti, non dipende dal curriculum degli onori, non dai lunghi anni di docenza universitaria (ci offre un indizio, tuttavia, una precisazione lasciata cadere di sfuggita: “ La porticina, o postierla nel linguaggio dei tecnici ….”) né da elenchi di pubblicazioni, di mostre e di eventi, che costituirebbero un elemento di disturbo.
Il riconoscimento si realizza altrove.
Programmaticamente, l’autore che non è un Autore rifiuta anche di rivelare le coordinate spazio- temporali del luogo di ambientazione dell’incontro con Bruna/Brunilde (“Non ti dirò il luogo o il paese”);
tuttavia alcune tracce lasciate cadere qua e là, ci permettono di intuire che si tratta di una cittadella fortificata (“ Il Castello al suo paese si chiama Kala”), dichiarata “ monumento nazionale, patrimonio dell’umanità” in un Paese al cui regime, ormai crollato, erano invise le ritualità religiose (“ un regime che del battesimo e di tante altre cose legate all’odor d’incenso non sapeva cosa farsene”), e teoricamente si basava sulla solidarietà di classe (“ …regimi che della solidarietà di classe facevano la pietra angolare delle loro teorizzazioni politiche”).
Mentre “raki”, il nome del distillato “atroce per l’anima e per il corpo”, potrebbe depistarci verso altre spiagge dell’area balcanica, in realtà siamo vicini ormai all’identificazione, confermata dall’aquila sul dono augurale, (“mi ha consegnato due piccoli lavoretti al tombolo, uno con l’eroe locale e l’altro con l’aquila che ne è il simbolo”).
Nel suo Paradiso il senese Giovanni di Paolo immagina che nell’al di là ci si ritrovi con le persone che ci hanno voluto bene. Così nella ecfrasi di Hisham Matar : “il dipinto immagina un ricongiungimento nell’al di là. Secondo l’artista, tale ricongiungimento avverrebbe a coppie, con ogni convenuto in piedi di fronte all’altro, a stringergli le mani. Le coppie sono disposte in una sorta di valzer su tre piani orizzontali: sei coppie in alto, quattro nel mezzo e quattro in basso. Il dipinto è organizzato verticalmente, come se la terra fosse una facciata. Tutti i valori sono rappresentati alla pari e nessuno è sminuito in una prospettiva realistica. All’estremità superiore del dipinto si intravede l’orizzonte, che innocentemente curva, e un filone di alberi di melo che schermano il cielo. Sono appesantiti dai frutti. Ora che il cerchio è chiuso, sembra dire il dipinto, mangiare le mele non solo è permesso, ma anche incoraggiato. “
Nel caso di Ilario Principe. Fotosemie. Bruna forse il paradiso è l’essere riconosciuti da chi ci è vicino nel pensiero, non ci nega un orecchio attento, empatia e consenso.
Paradiso quindi come luogo di incontro e condivisione, contrapposto [“Guai sacrificare i giovani, il futuro cioè[…]” all’infame paradiso dei consumi evocato nella sconsolata conclusione del racconto.
Patrizia Raveggi
Patrizia Raveggi
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