Francesca Lenzi – Horror al mare

Estate. Tempo di mare, di caldo, di ore sotto il sole a cuocere come uova al tegamino, di dolce far niente, di gambe a penzoloni nell’acqua e di cocktail gustati sotto il gazebo. E di horror. Il genere de paura ama da sempre i contrasti e spesso i brividi hanno trovato spazio nella sabbia bollente di un giorno assolato, fra assassini spietati, virus letali e bestie mostruose.

L’ASSASSINO. Partiamo da un regista italiano, Umberto Lenzi che, nel 1988, con lo pseudonimo di Harry Kirkpatrick, dirige lo slasher movie Nightmare Beach – La spiaggia del terrore. Nel cast anche John Saxon, più volte interprete in film di genere per registi italiani, come Mario Bava e Dario Argento.

Il capo di una violenta banda di motociclisti viene giustiziato per l’omicidio di una giovane donna. Sulla sedia elettrica promette di tornare in vita per vendicarsi. Un giuramento particolarmente caro ai cattivi degli horror anni 80 e 90 che non si arrendono alla morte, innescando una vendetta fatta di tante supplizi, preferibilmente trash. Come nel caso del nostro Nightmare Beach con l’assassino che si diverte ad ammazzare nei modi peggiori, nella ridente cittadina balneare di Spring Break.

L’ENTITÀ. Passiamo a un film di ben altro livello che, in realtà, in spiaggia c’inciampa solamente nella prima, memorabile sequenza. Parliamo di It Follows (2014), inquietante gioiellino diretto da David Robert Mitchell. Siamo a Detroit e la macchina da presa segue una ragazza che, terrorizzata, fugge da qualcosa di non molto chiaro. Scappa da casa, prende l’automobile e arriva in una spiaggia deserta. Si siede sulla sabbia e telefona al padre, in quello ha tutto il sapore di uno struggente addio. La mattina successiva, infatti, la giovane viene ritrovata sulla spiaggia defunta e, soprattutto, accartocciata in una posizione grottesca. Guardatelo, se non l’avete visto, It Follows, perché è uno degli horror più angoscianti e meno scontati degli ultimi anni.

IL VIRUS. Fra i tanti sottogeneri dell’horror, non può mancare il caro e mai noioso virus che, generalmente, miete vittime peggio di una volpe in un pollaio. The Bay è un film del 2012 diretto da Barry Levinson. Uno, tanto per dire, che ha girato Good Morning, Vietnam, e ha vinto l’Oscar con Rain Man (1988), prima di precipitare in una spirale di mediocrità (resta da salvare nella sua filmografia) il buon Sleepers (1996). Comunque, siamo a Chesapeake Bay, nel Maryland e, come spesso accade, nelle pellicole ambientate in qualche amena località balneare, si festeggia qualcosa. In questo caso siamo al 4 luglio e, nell’attesa che inizi la gara dei mangiatori di granchi, la comunità piomba nell’orrore a causa di un parassita che divora letteralmente le persone, tanto da provocare una velocissima epidemia di pustole e raccapriccio. Inevitabile il parallelo al Cabin Fever di dieci anni prima, esordio sfavillante di Eli Roth. In questo caso il virus irrompe in un capanno nel bosco, devastando a suon di piaghe un manipolo di giovanotti in festa.

LE BESTIE. Ben vengano gli assassini di qualsivoglia natura, così come virus e batteri. Ma nell’horror marino, a farla da padroni sono gli animali, minacce fuori controllo per l’essere umano che finisce volentieri per essere mangiato, sbertucciato, ferito, ingioiato, deturpato, e via dicendo.

Il titolo più illustre, famosissimo, bellissimo, indimenticabile, è senza dubbio Lo Squalo (1975) di Steven Spielberg. Citiamo lui e non tutti i capitoli della saga per comodità e qualità. Il terribile squalo bianco crea il panico in una cittadina balneare del New England. “Vive per uccidere” recita la voce narrante del trailer ufficiale. È il mito, la leggenda che, ancora oggi, fa sobbalzare dalla sedia.

Sempre gli squali sono protagonisti di Open Water (2003), un filmetto girato da Chris Kentis con due lire e molto ingegno. Tratto da una (terrificante) storia vera, il buon Kentis riesce a produrre suspense senza effetti speciali e senza che accada praticamente nulla ai due personaggi della storia, appassionati di subacquea, dimenticati in mare aperto nelle acque dei Caraibi. I due resistono finché possono, minacciati dalla fatica e dagli squali che nuotano là intorno, senza però farsi vedere.

Si fanno invece vedere, e non solo, gli squali mako di Blu Profondo (1999) di Renny Harlin. Nel generoso tentativo di trovare una cura per l’Alzheimer, un gruppo di scienziati compie la classica cazzata da delirio di onnipotenza e crea delle infernali macchine di morte. Filmetto senza pretese che regala, tuttavia, qualche salto sulla poltrona, e un sano svago serale.

Cambiamo bestie e passiamo ai piranha. È del 1978 il Piraňa di Joe Dante. A differenza di Spielberg che con Lo Squalo si era preso maledettamente sul serio, Dante sconfina nel grottesco, sdrammatizzando i toni del racconto, con un ben bilancio ibrido composto da effetti macabri e divertenti tocchi di ironia. Nel 2010 il folle Alexander Aja rimette mano ai famelici pesciolini, utilizzando il 3d, e togliendo ogni riferimento politico presente nell’originale di Dante. Ne viene fuori un delirante plot di sangue e mare rossastro, con pezzi di cadaveri un po’ ovunque. Anche qui, senza troppe ambizioni, ci si diverte.

Chiudo con un film che, all’epoca, mi privò di molta serenità e voglia di andare al mare. Al pari di come aveva fatto Grizzly, l’orso che uccide (1976) per la montagna.

L’orca assassina è un film del 1977, prodotto da Dino De Laurentiis e diretto da Michael Anderson. Il capitano Nolan, pescatore di origini irlandesi, ha un bel giorno la brillante idea di catturare un’orca che, nell’azione, muore sotto gli occhi del compagno maschio che, manco a dirlo, giura vendetta tremenda vendetta. Ne segue una persecuzione vera e propria, nella quale lo stesso spettatore si sente angosciato e colpevole nemmeno l’avesse ammazzata lui quella povera orca. A ripensarci, (ri)perdo la serenità.

Buon mare e buone vacanze a tutti.

Francesca Lenzi