Patrizia Lessi – Nomadland
Foglie nomadi
Nomadland – Un racconto d’inchiesta – di Jessica Bruder, 2020 VS Nomadland di Chloé Zhao, premio oscar 2021.
Nel finale di The Rider, film che Chloé Zhao ha diretto prima della fortunata pellicola tratta dall’inchiesta giornalistica di Jessica Bruder sulle comunità nomadi di americani senza fissa dimora, c’è una lunga sequenza che in qualche modo costituisce la chiave per capire la poetica e il mondo di questa talentuosa regista naturalizzata statunitense. Il protagonista del film del 2017, un giovane cowboy stella dei rodei locali che a causa di un danno cerebrale sa che non potrà più cavalcare, sogna l’ultima corsa nella vastità di una riserva indiana in South Dakota, sulla sella di Gus, il cavallo simbolo di un’amicizia altrettanto vasta e di una aderenza fra modo di essere e desiderio di vivere che uniscono indissolubilmente ogni cavaliere e il suo destriero. Quella cavalcata verso un orizzonte che non diventa mai meta, ma si sposta continuamente in avanti spinto dal desiderio di non fermarsi mai, inquadra abilmente il legame fra identità e frontiera in cui l’immaginario d’oltreoceano ha individuato il senso dell’America stessa (dai romanzi di Cormac McCarthy alla cinematografia di Clint Eastwood, per citare gli esempi più lampanti). È interessante come Chloé Zhao chiuda quel racconto sul cowboy solitario che dentro di sé sfida nel vento l’immensità della terra, mentre la realtà lo tiene in una stabilità che da quel momento in poi sarà casa sua, per aprirne uno nel 2021 in cui la protagonista è invece costretta dalla crisi economica ad abbandonare le radici di una casa e di un lavoro fisso per mettersi in viaggio, cavalcando la strada in sella ad un vecchio camper malconcio. Fern, intensamente interpretata dal premio oscar Frances McDormand, comincia così a sessant’anni passati il lungo viaggio su strada, Stato per Stato, un lavoro temporaneo alla volta. Questo è il suo percorso verso l’orizzonte: rinascere in un mito della frontiera contro cui si va frantumando la certezza del sogno americano, della famiglia, il lavoro sicuro, il benessere raggiunto con sudore e merito.
Autonoma e dignitosa, chiusa in un inaccessibile nocciolo di silenzi e solitudine, Fern non è però immune a gesti di solidarietà e rispetto per il prossimo, a legami momentanei eppure inscalfibili che intreccia per le strade dei molti stati che attraversa. È il suo bel nome il primo dei pur non molti punti in comune fra il film di Zhao e il reportage della giornalista Jessica Bruder che ha seguito Linda Mae (alla quale si ispira il personaggio di Fern) e i suoi compagni di strada per circa tre anni, portando alla luce un’America tutt’altro che marginale, più ineffabile che invisibile. Nel ritrarre la sua vita su quattro ruote a un certo punto Bruder riporta la decisione di Linda Mae e LaVonne, come lei passata da un relativo benessere alla perdita di quasi tutto, di pubblicare su FB un passo capitale tratto da Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut:
“L’America è la nazione più ricca del mondo, ma il suo popolo è in gran parte povero, e gli americani poveri tendono a odiare se stessi…Tutti gli altri Paesi hanno tradizioni popolari che parlano di uomini poveri ma molto saggi e virtuosi, e quindi più stimabili di qualsiasi individuo ricco e potente. Gli americani poveri non hanno tradizioni del genere. Deridono se stessi ed esaltano quelli che sono più ricchi di loro.”
Lei, LaVonne e il popolo dei vandveller, come amano chiamarsi i rider della sopravvivenza, nomadi su camper, jeep, roulotte che sono destrieri e focolare assieme, viaggiatori distinti dagli homeless, stanziali e senza tetto, non hanno vergogna della loro povertà. Non cedono alla narrativa dell’uomo e della donna che “si sono fatti e fatte da sé” sotto il cui tappeto si spazza la cenere di tutti coloro che per un motivo o per l’altro non ce l’hanno fatta. Nell’impossibilità di mantenere il lavoro, la casa, la vita per come l’hanno conosciuta, i vandveller scorrono vitali nelle grandi arterie che uniscono le tante anime del “nuovo continente”. In questa vitalità sta l’altro punto di congiunzione fra libro e film. La recisione di relazioni legate alla stanzialità ne crea altre e gli atomi in movimento spesso da soli si uniscono in molecole e queste in organismi tenuti assieme da affetto e solidarietà reciproca, momenti di raduno nel deserto in cui i nomadi si fermano per giorni, vivono assieme scambiandosi esperienze, barattando ciò che non serve, prestandosi denaro e prendendosi curagli uni degli altri. Una comunità nella comunità invisa al sistema perché in grado di metterne in luce le molte asperità.
Se il testo di Bruder omaggia attraverso la storia di Linda Mae i molti volti di questo popolo della strada che pur nella difficoltà avanza coltivando relazioni e speranze, il film di Zhao restringe il cono ottico su Fern ridisegnandone contorni e ombre. Nell’approcciarsi al film si è dato ampio rilievo alla denuncia sociale che inevitabilmente accompagna il racconto delle storie di queste persone. Ma Nomadland di Zhao è soprattutto il racconto di una storia. E la donna ritratta sullo schermo, con il suo sguardo dolente e l’incedere sospeso, mai del tutto presente in nessun luogo che tocca nel suo girovagare, ha la sua storia a parte, qualcosa che in una lettura concentrata sullo sfondo, perde di vista ciò che vi si staglia di fronte. Basta pensare alle sequenze finali del film che si conclude dove è cominciato: l’agglomerato fantasma delle case sorte attorno alla fabbrica di cui Fern era una manager, ora abbandonato a causa della cessazione delle attività. Fino a quel momento la protagonista ha mostrato una poderosa resilienza alle difficoltà della sua nuova condizione, frapponendo fra sé ed essa una refrattarietà inspiegabile ai legami affettivi troppo vincolanti e rifiutandosi di accogliere per ben due volte l’offerta di una nuova sedentarietà (a casa della sorella e in quella della famiglia di un compagno di viaggio consumato dalla vita su strada e fino ad allora troppo orgoglioso per accettare l’aiuto del figlio). Fern potrebbe fermarsi, tentare di ricostruirsi nella stanzialità, ma si rifiuta. Allontana anche l’affetto di un cane abbandonato di cui si occupa fino a trovargli un porto sicuro in cui lasciarlo. Viene e va dai raduni, viaggia senza sosta, si lega nella distanza. L’unico posto in cui torna chiudendo e riaprendo il cerchio del suo girovagare è la vecchia casa accanto alla fabbrica. In quelle stanze polverose e vuote il suo sguardo azzurro torna limpido, sereno. Nei ricordi che allo spettatore è dato solo di intuire Fern si cerca e si ritrova. Nella pervicace volontà di non lasciare andare stanno l’orizzonte e il limite del suo percorso.
Abbiamo dunque la frontiera, quella del giovane cowboy che nelle cavalcate dei suoi sogni ritrova la sua primigenia libertà e quella della vecchia manager che nella certezza di uno dei molti luoghi resi fantasmi dalla crisi economica, ritrova ciclicamente il senso, la propria identità.
Nei loro volti e nelle storie si radica il rapporto fra passato e futuro in cui si agita l’America di oggi.
Nomadland. Un racconto d’inchiesta, di Jessica Bruder, Edizioni Clichy, 2020
Nomadland di Chloé Zhao, 2021
Patrizia Lessi
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