Der Hauptmann – L’abito fa il monaco e lo sbatte nel PRESENTE
Der Hauptmann: l’abito fa il monaco e lo sbatte nel PRESENTE
Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.
Antonio Gramsci
“I don’t quite understand why you would make a film about the past unless it was relevant to today. We were making a film about something specifically that occurred during a very specific time in history, but that contains issues that are relevant to today”.
Robert Schwentke, an interview
Il capitano, (Der Hauptmann, 2017), diretto da Robert Schwentke, è basato su una storia vera che ebbe luogo nelle ultime due settimane del secondo conflitto bellico mondiale. Grottesco, farsesco, dichiaratamente non realistico, stilizzato, con punte di umorismo noir, rigorosamente in bianco e nero e con rovente sottofondo musicale elettronico – salvo la parte dei titoli di coda (guai ad andarsene pensando che il film sia finito!), a colori e con accompagnamento di valzer viennesi, in voluto contrasto con tutto ciò che precede – , questo dramma di guerra è un’allegoria della natura corrotta del potere, in cui una uniforme militare trasforma un disertore disperato in un mostro assassino.
Aprile 1945. Il Terzo Reich è nel caos più totale, non è più il tempo dei fanatismi patriottardi, i soldati sono allo sbando, affamati e dispersi. Il giovane Willi Herold ha perduto il suo reggimento o forse ha disertato, nella prima, memorabile, scena del film fugge, avvolto malamente in una coperta stracciata, inseguito da un commando motorizzato che gli spara addosso come a un bersaglio mobile. Riesce a far perdere le proprie tracce addentrandosi in un bosco, poi, mentre infuria una tormenta di neve, si imbatte in un’auto abbandonata. Sul sedile posteriore, una pesante valigia, che contiene danaro, cibi, sigarette e anche l’uniforme, completa di monocolo, di un pluridecorato ufficiale con il grado di capitano. Will la indossa e prova anche il monocolo (finisce qui ogni possibile parallelo o somiglianza con l’Ugo Tognazzi del Federale), all’inizio la divisa è solo un modo per scaldarsi, ma ben presto Willi si rende conto che i soldati che hanno smarrito la propria unità, ne riconoscono il grado e sono pronti a seguirlo. Nel loro disorientamento, lo seguirebbero anche senza la certezza della sua vera identità, leggiamo nei loro occhi che non sono del tutto sicuri che lui sia veramente l’ufficiale che finge di essere. Tuttavia, l’illegalità dilagante, una situazione che sta precipitando (ma non è dato sapere quanto la fine sia incombente), l’insicurezza e le continue minacce provenienti da ogni parte, lo scatenarsi dei peggiori istinti, tutto insieme fa sì che i soldati, confusi, nervosi, sospettosi, in preda al panico, accettino uno che si presenta come leader autoritario e con le idee chiare, ne hanno bisogno. E finiscono per credergli, solo un ufficiale nazista avrebbe potuto impartire a sangue freddo l’ordine che Willi ha dato nel lager dei prigionieri tedeschi, dopo averne preso il comando. Lo lascia indifferente il massacro di più di cento disertori – una scena degna del Pasolini di Salò – che disgusta e indigna gli ufficiali tedeschi presenti al campo e da lui esautorati, che lo accusano di aver compiuto un’azione disumana, sadica, non degna di un tedesco. Ma Willi è subito diventato abilissimo nell’usare in ogni occasione la snervante modalità del nominare in termini genericamente eufemistici e burocratici le malefatte più efferate. “Ordnung ist gemacht” esclama, dopo aver assassinato a bruciapelo un disgraziato vagabondo. Il regista non esita a sottolineare come anche questa sia una caratteristica che collega il mondo di oggi a quello della guerra e dei suoi eventi: “villaggi indifesi sono bombardati dall’aria, il bestiame mitragliato, le capanne incendiate: questo si chiama pacificazione. La gente viene imprigionata per anni senza processo, uccisa con un colpo alla nuca o mandata a morire nei campi: questo si chiama eliminazione degli elementi inaffidabili”.
“Quasi settant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le sue orribili brutalità evocano ancora sentimenti di orrore e incomprensibilità. Dal punto di vista odierno, gli atti di violenza sembrano psicopatici, agghiaccianti. Ma l’orrore è un concetto morale, non analitico. La prospettiva molto particolare di Herold su un evento storico specifico ci fa intravedere una verità universale sulla condizione umana durante la guerra – sia in passato che oggi”, scrive il regista.
Ormai Willi Herold, con quella uniforme per lui troppo grande in ogni senso, si sente investito di una missione, può fare quello che vuole. Il ragazzo in fuga, esausto, mezzo assiderato, impotente, impaurito, si è calato in un ruolo che porta lui e i suoi commilitoni (diventati suoi complici in un autonominatosi “commando Herold”), in una marcia mortale attraverso la campagna devastata.
“Il Capitano” ha un finale a codice, anticipato – durante il processo al criminale da guerra Willi Herold – dalla sintonia tra l’accusato Herold e uno dei due giudici, che lo apprezza proprio per quei misfatti per i quali dovrebbe condannarlo, (i due si capiscono alla perfezione, e alzano all’unisono il braccio nel saluto nazista in nome di una Germania che è stata tradita e occupata dal nemico, e quindi da liberare e far risorgere).
Dal bianco e nero passiamo ai colori e ai valzer, dal passato piombiamo nel presente, e – con intenzionale anacronismo – nella “normalità” delle strade della Germania moderna, dove Willi e il suo commando di nazisti in uniforme molestano, minacciano e derubano i passanti. Così come molestavano e minacciavano gli ebrei, i rom e gli slavi. “Il Capitano” funge da segnale: Hitler è sopravvissuto, ma anche da avvertimento: chi gioca o imita un nazista/o un fascista prima o poi diventa un fascista per davvero! L’estrema destra che sta dilagando in Europa non è fascista, dicono – no, sono solo ” populisti “, ” patrioti “, ” etno-nazionalisti “.
“E se un giorno i buoni e bravi populisti, così vicini alle esigenze del quotidiano, mentre si ispirano ai miti del ventennio e si avvicinano ai loro epigoni, trovassero in un’auto abbandonata delle uniformi da federale, complete di berretto e monocolo?” ammonisce il critico cinematografico Marcel Štefančič.
Patrizia Raveggi
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