Verrà a prendermi - Angelo Lachesi

Verrà a prendermi – Angelo Lachesi

Una narrazione pura, secca, con un finale che ghiaccia il sangue nelle vene. Angelo Lachesi ci racconta di un presente indigesto, da cui fuggire ad ogni costo; la scelta del suo protagonista è folle, ma meno insensata del continuare a vivere da automa. Rilassatevi, ma non troppo, tra le pieghe di questo racconto breve; il sonno qui è tutto fuorché riposante…

 

Verrà a prendermi

Si reggeva alla maniglia con rassegnata indolenza mentre il suo corpo dondolava seguendo il moto del treno che, lento, sferragliava su continui cambi di binari. Gli occhi – fissi sul finestrino dinanzi a sé, divenuto, ormai, una lastra di brina opaca – lottavano tenacemente con le palpebre che tendevano a serrarsi per soddisfare il torpore del sonno arretrato. Solo dopo aver lasciato la stazione di Saronno, Anselmo trovò posto a sedere e, a giudicare da quanto era affollato il convoglio quella sera, gli parve anche una gran fortuna.

Dinanzi a sé c’erano due donne, sembravano molto amiche. Tornavano forse da un lungo viaggio. Parlavano di abiti commentando l’abbigliamento inadeguato di alcune conoscenti. Sul sedile accanto, un uomo, in vistoso sovrappeso, mangiava del pane con prosciutto ed Emmental. A causa della sua mole, occupava parte del sedile di Anselmo costringendolo in uno spazio tanto ristretto da strisciare col fianco contro il bracciolo alla sua destra. Faceva caldo. L’aria era pesante e pregna di un lieve ma nauseabondo olezzo di formaggio. Il rumore delle rotaie, in sottofondo, era un costante frinire metallico. Era mercoledì e Anselmo, sfibrato, già non ne poteva più della settimana.

A lavoro mancava un collega e per il terzo giorno consecutivo aveva lavorato per quasi dieci ore, senza sosta se non per mezz’ora di pausa pranzo, eseguendo la registrazione e la documentazione di ogni movimento contabile dell’azienda, aggiornando gli archivi dei clienti, dei fornitori e dei collaboratori e redigendo i rapporti finanziari di fine mese. Anselmo era un contabile. A cinquantadue anni aveva più di venticinque anni di esperienza; non aveva mai fatto altri lavori, non sapeva fare nient’altro che dialogare con bilanci, archivi e moduli. Anselmo aveva scelto il suo mestiere ma col tempo si era risolto a detestarlo e, con esso, la sua vita che gli appariva come una lunga successione di fatiche, grane e fastidi. Durante il viaggio in treno, ebbe la sensazione che quel giorno fosse il più penoso degli ultimi anni.

Guardando il finestrino opaco, schiacciato nel sedile, stanco, accaldato, con il rumore delle rotaie e il chiacchiericcio delle due donne in sottofondo, Anselmo pensò che avrebbe dovuto fare quel percorso da pendolare altri due giorni, prima dell’ambito fine settimana; poi altre innumerevoli settimane prima delle ferie estive per poi ricominciare, tutti i giorni della sua vita, in una successione infinita fatta di treno, lavoro, pausa pranzo, di nuovo lavoro e ancora treno. All’improvviso, ebbe una visione, una specie di allucinazione: si vide rivivere di continuo quel ciclo, come se il giorno appena vissuto fosse destinato a ripetersi eternamente con tutte le sue noie, i suoi fastidi, i suoi stress. Fu la visione più nefasta della sua vita: patire le sue frustrazioni in una specie di coazione a ripetere senza alcuna via di fuga che non fosse la morte. Fu preda di uno sgomento lanciante e silenzioso. Gli mancò il respiro per un attimo, il cuore accelerò improvviso e la vista parve annebbiarsi. Appoggiò la nuca sul poggiatesta, respirò a fondo e chiuse gli occhi. Pochi minuti e parve sentirsi meglio. Rimase così immobile, a lungo. Il movimento del treno sembrò cullarlo, i rumori parvero affievolirsi, i cattivi odori sparire. Si addormentò senza accorgersene.

Sognò di morire. Nelle sue visioni oniriche vedeva se stesso morto; esperiva questa visione extracorporale in cui dall’esterno assisteva alla scena dei manager che chiedevano complesse prestazioni lavorative alla sua salma mentre lui gioiva nel vedere l’indifferenza cadaverica del proprio corpo esanime dinanzi a quelle istanze. Si svegliò, con un misto di angoscia e piacere, appena il treno giunse al capolinea.

Dopo due settimane, di ritorno da lavoro, sul medesimo treno, sedette in un posto nello stesso vagone, appena più lontano. In stazione aveva acquistato una rivista di scienze. Un articolo, in particolare, lo incuriosì. Descriveva gli effetti di una sostanza sperimentale, la 41-FKAW, estratta dalla scopolamina e dalla atropina contenute nella Datura stramonium. Originariamente, spiegava l’articolo, fu ideata per i lunghi viaggi aerospaziali e doveva simulare sull’uomo gli effetti del letargo: abbassamento della temperatura corporea, riduzione dei battiti al livello minimo assoluto, perdita di coscienza, riduzione di consumo energetico, assenza di riflessi, flaccidità muscolare e rilasciamento degli sfinteri. Durante la fase avanzata di sperimentazione, tuttavia, gli scienziati si accorsero che la sostanza induceva una morte apparente che traeva in inganno persino i medici.

Fu una conversazione nata quasi per caso col fratello farmacista e oberato dai debiti, a fargli sorgere l’idea fantasiosa di un piano che potesse sottrarlo all’asfittica prigionia della sua routine. Col tempo, quella fantasia crebbe, si dilatò fino a divenire un’idea persistente che lo invadeva sin nell’intimo con una potenza seduttiva che sfociava quasi nell’ossessione. Fantasticava continuamente di utilizzare la 41-FKAW per accedere a una nuova vita libera dalla frustrante schiavitù del lavoro. Anselmo era consapevole che quell’idea era irrealizzabile e prossima alla follia. Col tempo, tuttavia, le fantasie assunsero le caratteristiche di un disegno ben congegnato. Analizzati con cura gli studi scientifici, il fratello ipotizzò che, se ben strutturato in tutte le sue fasi, il piano potesse funzionare. L’assicurazione sulla vita di cui lo stesso fratello era beneficiario, insieme alla 41-FKAW acquistata di contrabbando da un laboratorio farmaceutico, furono gli elementi chiave. In poco tempo, i due fratelli, misero appunto i dettagli.

Era una fredda mattina di dicembre. Il cielo, insolitamente terso, appariva come una distesa celeste, uniforme e bellissima. A tratti, l’aria tremava di un vento freddo che propagava ovunque il profumo di erba appena tagliata. In lontananza, si udiva il gracchiare sommesso dei corvi.

Celebrarono il funerale nella piccola chiesa del paese natio. Furono in pochi ad assistere: tutti seduti nelle prime file ad eccezione del fratello, seduto in fondo alla navata. Fingendosi affranto, l’uomo conservò, sotto i baffi grigi, un malcelato ghigno durante tutto il rito funebre. Anche al cimitero, dopo la tumulazione, l’uomo finse di pregare col viso rivolto al terreno fresco che inghiottiva la bara, poi non riuscì a trattenere una risata. Fu breve e silenziosa. Poi si fece serio, di colpo, e andò via.

Il farmacista tornò nel cimitero poco dopo mezzanotte. Scavalcò il muro di recinzione munito di pala e torcia e si avviò verso la tomba del fratello. Secondo il programma, aveva poco più di due ore per liberarlo. Le 2.30 del mattino era l’ora in cui l’effetto della 41-FKAW si sarebbe esaurito. Il farmacista piazzò la torcia sul terreno. Un cono di luce artificiale brillò come un livido bagliore sotto le stelle che palpitavano disseminate nel cielo nero e terso. Il cimitero, a quell’ora, era dominato da un’immobilità austera e silenziosa.

L’uomo iniziò a scavare con energia, fremendo di piacere. Ad ogni colpo, pensava ai soldi dell’assicurazione e al Brasile dove l’attendeva la nuova vita. L’aria fredda che gli intorpidiva le mani sembrava quasi non infastidirlo. Era a metà lavoro quando le sue fantasie furono interrotte da alcune luci in lontananza seguite dal suono delle sirene. Scappò d’istinto. Si rifugiò dietro la grossa lapide di un ossario. La Polizia lo trovò dopo appena qualche minuto accovacciato in posizione fetale.

In commissariato, l’uomo chiese di liberare il fratello in pericolo di vita. Confessò il piano nei dettagli: il farmaco, la truffa assicurativa, il progetto di fuga, ma gli agenti non gli credettero e lo arrestarono con l’accusa di violazione di sepolcro.

Erano appena passate le 2.30. Il contabile aprì gli occhi. Era buio pesto. Nell’aria un sentore legnoso. Provò a portarsi la mano al volto ma urtò il dorso contro una superficie rigida. Provò, allora, ad alzare l’altro braccio, ma anche questo urtò contro un ostacolo. Il torpore del risveglio sembrava imprigionarlo in un languore simile al deliquio onirico. Gli parve quasi di fluttuare nello spazio infinito, freddo, privo di stelle. Non capì realmente se fosse sveglio o in preda al sonno. Si mosse lentamente ma qualunque suo movimento risultava impedito. Trascorsero alcuni lunghi, tormentati, minuti prima che si rendesse conto che quel luogo di pace spettrale era la sua bara. Solo allora fu preda di una straziante angoscia. Urlò a squarciagola. Provò a colpire con pugni e calci le pareti, ma gli spazi erano tanto esigui che ottenne l’unico effetto di urtare con i gomiti e le ginocchia contro la bara. Iniziò a dimenarsi fino a quando lo colse una crisi claustrofobica che in poco si tramutò in un attacco isterico. Continuò ad urlare a squarciagola e ad agitarsi malgrado si sentisse soffocare. La schiena, le mani e la fronte si bagnarono di sudore, il respiro uscì furioso e il cuore prese a martellare nel petto al punto che credette stesse scoppiando. Nella bara angusta, dalle pareti invincibili, lui, vivo e vegeto, si sentì risucchiato da un errore non calcolato, una sorta di disegno segreto che non aveva immaginato. Tutta la vita gli parve diluirsi in pochi attimi di angoscia che gli stringevano il petto. E più tremava, più cercava di dimenarsi e più il cuore sembrava esplodergli e l’aria mancargli. Ad un tratto, pensò al fratello e al loro piano. Suppose che qualcosa fosse andato storto. Allora provò a calmarsi. Chiuse gli occhi. Respirò a fondo e si acquietò. Immaginò che il fratello stesse per liberarlo, era solo questione di tempo. Spalancò le palpebre. Era tutto nero, come avesse ancora gli occhi chiusi. Allora cantilenò, con un’espressione di disgusto, prima nella sua testa poi ad alta voce:

«Ora verrà, ora verrà a liberarmi».

E ripetendo quelle parole rimase fermo, in attesa, immaginando, ancora una volta, di fluttuare nello spazio infinito.

 

Angelo Lachesi