I ModiCults: (Stra)pazzo – viaggio nel cinema delle follie
(Stra)pazzo viaggio nel cinema delle follie
Il titolo cui si rifà il presente numero merita un articolo sui generis, e così cercherò di fare.
Come parlare solo di un numero ristretto di film, con un presupposto quale il vocabolo “(Stra)pazzo”? E come limitarsi a un numero esiguo di generi, o di nazionalità cinematografiche? La tentazione è quella di snocciolare un mero elenco di titoli che non sarebbe mai, comunque, esaustivo.
Certo, anche il concetto di “strapazzia” è soggettivo, ma ritengo lo sia meno di quel che sembri. Pertanto voglio focalizzarmi su un solo aspetto di (stra)pazzia: le intenzioni folli dei registi!
Ma non di tutte le tipologie: gli horror e i comico-demenziali non li tratterò in quanto in essi la pazzia, in forme opposte, è programmatica e prevista, pertanto meno capace di spiazzare il pubblico. Lascerò da parte quindi tutti i titoli estremi che mantengono la loro premessa, e vi assicuro che anche al netto di questo la selezione è stata durissima.
Trattando di crossovers tra generi, chi non sarebbe d’accordo nell’annoverare in questo elenco una pellicola bizzarra quale il Kubrickiano Dr. Strangelove (1964), satira che si conclude con una visione della fine del mondo rappresentata tutt’altro che in chiave seria? Le espolosioni nucleari sono accompagnate da una canzone melodica sentimentale, a sottolineare la totale mancanza di dignità dell’avventura umana. Eppure, con quell’opera si era stilisticamente in un contesto molto classico.
Da includere nella lista anche Natural born killers (Oliver Stone, 1994), anch’esso una satira sociale ma imbastita su una trama banale, violenza irrealistica e dialoghi per lo più risibili, tuttavia condita di uno stridente – in senso positivo – linguaggio visivo/sonoro. Un linguaggio potente, inventivo e seducente, in alcuni passaggi ai limiti del sublime… Tuttavia ciò non è bastato a compensare una pellicola orgogliosamente pacchiana fatta per provocare e con ripercussioni sociali non proprio felici. D’altra parte, se il frullato visivo basato su montaggio frenetico, tutti i tipi di colorazioni, dutch angles, ralenty e accelerazioni non fosse stato coinvolgente, non avrebbe creato il discutibile effetto emulazione nella vita reale. È anche il film in cui l’attrice Juliette Lewis, allora tossicodipendente, ruppe il naso sul serio a Tom Sizemore. Tuttavia l’opera resta un manuale di bellezza estetica, esattamente come la dark comedy dello stesso autore U-Turn (1996), altrettanto visivamente abbagliante e molto più sincera.
Breve menzione anche per i classici del B-movie americano dell’intera filmografia di Russ Meyer, tra donne dai seni enormi, motociclisti, sadismo e goliardia capace di tutto tranne che di annoiare ed essere dimenticata, le cui vette di follia sono rappresentate dalla serie sulle cosiddette “Supervixen”, dove anche ci viene ucciso è capace di resuscitare in carne ed ossa senza un perché. Ad esse deve molto anche John Waters, che parimenti dirige storie beffarde partendo però da budget decisamente più Hollywoodiani
A questo punto metterei da parte il cinema USA per parlare di qualcosa di più vicino benché temporalmente lontano (mantenendo l’elemento ironico) come l’autentica follia filmica Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola; come forse saprete, sta tutto nel titolo: c’è una famiglia di derelitti – capitanata da un istrionico Nino Manfredi – che fa letteralmente a pezzi il luogo comune del maggiore senso di umanità delle fasce povere: in essa NULLA si salva, e nel vederla si è letteralmente risucchiati in un vortice di bassezze senza limiti. Un punto di non ritorno la cui bruttura ci permette ugualmente di ridere, privando l’opera addirittura della compassione e della nobilitazione del dramma sociale. Sia chiaro che non si parla di un film malriuscito, anzi di un lavoro che risulta essere proprio quello che vuole essere ma a scapito delle aspettative di un pubblico impreparato a ridere del ribrezzo.
Film pazzo con allegoria e finale spiazzante è l’audace La grand bouffe (1973) del geniale Marco Ferreri, in cui 4 amici con gli stessi nomi degli attori che li interpretano (Marcello per Mastroianni, Ugo per Tognazzi, Philippe per Noiret e Michel per Piccoli) si riuniscono per strafogarsi di cibo al fine di giungere al suicidio. Film con un compendio di situazioni sordide che il quartetto italo-francese di altolocati professionisti prepara e subisce prima del tragico epilogo, tra prostitute coinvolte ai soli fini di trasgressioni gastronomiche, un rapporto edipico andato troppo in là di Philippe, la manifestazione di omosessualità nascosta di Michel, scarichi di servizi igienici che esplodono su Marcello, diapositive osée di inizio secolo e altro. Contrariamente a quello che può sembrare, quel che ne risulta è un capolavoro del cinema che ha molto da dire sulla società dell’opulenza.
Ora desidererei passare dal cinema importante a quello meno noto, tirando fuori dal cilindro titoli che faranno inorridire più di qualcuno. Il primo che mi viene in mente è il malsano e grottesco La trasgressione di Fabrizio Rampelli e Pierfrancesco campanella, che è un viaggio nelle allucinazioni di un drogato. Queste allucinazioni, che sapremo essere tali solo alla fine, ci mostrano situazioni da lasciare allibiti, tra donne anziane sessualmente depravate, matricidi, protagonisti che incendiano un gruppo di amici senza alcun motivo sogghignando come dei bambini, e parentesi sessuali. Abbastanza palese l’ispirazione ad Arancia meccanica per la freddezza e il cinismo dei crimini, ma calato in un mondo non futuristico altresì freddo, piatto e squallido (caratteristica che lo rende più aspro). Sgradevole? A tratti sì, ma alla fine resta un sapore da guilty pleasure per un lavoro così sfacciatamente menefreghista nei confronti di tutti i crismi possibili e immaginabili. Gli attori erano anch’essi degni di questa follia: il regista stesso Campanella, la pornostar Milly D’Abbraccio, Rosanna Banfi (figlia di Lino in un ruolo sexy!) e nientemeno i leggendari Giorgio Ardisson e Didi Perego (nel succitato ruolo della vecchia depravata). Resta un film che consiglio solo agli spettatori animati da uno spirito fortemente weird.
Fino a questo punto mi sono occupato di pellicole che si facevano, in maniera più o meno onesta, beffe del dramma. Ora, vorrei concludere la nostra carrellata con altri due film italiani dalla produzione minuscola, imperfetti ma dal forte impatto emotivo; in primis, parliamo del libertino e tragico Inhibition (1976). È un film dalle connotazioni hard che dà l’impressione che molte scene siano state montate senza una grande cura della coerenza narrativa, lasciando fluttuare la storia in una sorta di fascinoso limbo e di indefinitezza che non si è abituati a vedere accostati a immagini fortemente terrene come quelle hard, ed è anche per questo contrasto che lo abbiamo apprezzato. Dopo un inizio che non lascia immaginare, la storia si risolve in una tragedia lesbica girata molto prima che l’argomento diventasse di moda (benché gli anni ’70 già osassero). Regia di Paolo Poeti e con le attrici hard Claudine Beccarie e Ilona Staller, il film fa parte di quel minifilone anni ’70 di cinema che mischiava il cinema tradizionale con la pornografia.
In secundis, cito volentieri un film che oggi sarebbe impossibile produrre in quanto tratta di un amore in cui i vincoli di età vanno molto oltre il consentito da leggi e morale, che purtuttavia esiste nella realtà: Piccole labbra (1979), unica regìa di Mimmo Cattarnich. A dispetto della pruderie del titolo, si tratta di un dramma puro diretto con il tatto che la tematica richiede senza togliere nulla alla storia.
Interrompo questa disamina più per carenza di spazio che di argomenti, ma nella certezza di avere scritto dei film stra-pazzi che più mi hanno colpito nel bene e nel male, senza badare all’alto o al basso.
Ma ricordate una cosa: qualora decideste di guardarli tutti, sarà unicamente a vostro rischio e pericolo!
Giovanni Modica
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