Ughetto – Martina Bettiga
Questa è la storia dell’Ughetto che era stato normale fino a cinque anni e mezzo, quando, di notte aveva fatto una crisi convulsiva così forte che era diventato deficiente.
Il primo segno l’aveva dato la settimana dopo, quando aveva cominciato a sparare. Te lo trovavi in giro dappertutto, all’oratorio, all’osteria, nei cantieri e perfino in farmacia.
«Pum» e soffiava sulle dita a forma di pistola.
Lo zio Fredo dal primo sparo, non l’aveva mai più abbracciato. Era così piccolo, diceva, quando raccontava di quell’abbraccio. Avrei potuto fargli con le braccia due giri attorno, mentre lui, le sue mani non riuscivano neanche a giuntarsi dietro la mia schiena.
A scuola non capiva niente. La zia Elsa gli dava pugni sulla testa e provava a metterglieli dentro il Po, l’Adige e due per due quattro. Lo zio Fredo invece pellegrinava tutti i giorni su alla chiesetta di Sant’Antonio, santo delle cose perdute.
Potrei raccontarvene a rotta di collo di quelle che faceva l’Ughetto.
Un giorno che era scappato di casa l’avevano trovato dove c’erano le prime case del paese, che camminava verso valle con tre barrette di ovomaltina che gli uscivano dalle tasche.
«Dove stai andando Ughetto?»
«In Sicilia.»
Anche quella sera l’Ughetto era venuto grasso a scopazzoni.
E a silenzi.
Di fatti, quando la pistola non aveva più carica, si chiudeva dentro in camera a ascoltare Lucio Battisti, le partite dell’Inter e Radio Mater.
Quante volte lo zio Fredo ti aveva spiato dal buco della chiave per vedere che facce facevi quando ascoltavi la radio.
Chissà se sogni Ughetto, pensava.
Ma la sera che tutto Roccolo ancora adesso racconta, è stata quella del tre settembre di un bel po’ di anni fa, quando nella credenza vicino alla farina di grano saraceno e al pangrattato con su la muffa aveva trovato una boccetta di Nozinan, rimasta lì dal primo ricovero. Te l’eri bevuto tutto e con il dito avevi raccolto le ultime gocce come se stessi mangiando crema. Dopo pochi minuti avevi cominciato a non avere più voglia di sparare e la zia Elsa ti ha sentito piangere.
Me li ricordo bene i tuoi occhi Ughetto, erano quelli di quando cadono le cose leggere.
«Sono stufo», avevi detto a voce bassa per la prima volta, «di non fare mai l’amore con una donna, di non guidare le macchine, di non avere un compagno per giocare a briscola, di vedere sempre il campanile dallo stesso terrazzo.»
«Ma allora sei normale», aveva pensato lo zio Fredo, «allora mi somigli».
.Dopo una lavanda gastrica nell’ospedale della provincia e tre visite giornaliere dello psichiatra, l’avevano mandato per qualche mese a ville Turro, un manicomio tutto giallo con il giardino pieno di coniglietti e i cancelli appuntiti che quasi bucavano le nuvole.
Una suora nera l’aveva accolto con un cestino di matricali.
«Vuoi una caramella da mettere in bocca?»
«Mai più nel culo.»
Tornò sei mesi dopo, l’Ughetto.
I suoi genitori comandarono al curato una messa.
«Siamo qui riuniti, diceva il don Arnaldo, per rendere grazie a Nostro Signore, che ascolta le suppliche di chi lo segue e allevia i nostri dolori.»
«Amen», ripetevamo noi ogni quattro parole, ubriachi di grazia.
Solo l’Ughetto stava zitto con le mani giunte, la testa inclinata a destra e i peli neri nel naso.
«Grazie Signore, che hai salvato dalla morte il nostro fratello Ughetto e gli hai concesso di rimanere ancora tra noi», predicava.
Finita la funzione abbiamo ricomposto la processione e ci hanno aperto il portone della navata centrale, come per gli sposi.
Lo zio Fredo, davanti, abbracciava il coppino dell’Ughetto, che da sotto il paltò stava già caricando le armi.
Martina Bettiga
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