Cesare Marino – Back in Salgari: il corsaro in camicia nera
IL CORSARO IN CAMICIA NERA
Tra il 1928 e la seconda metà degli anni Trenta, uno strano groviglio di cause ed interessi fa sì che Emilio Salgari, l’amato scrittore d’avventure e ancora popolarissimo a vent’anni dalla morte, sia trasformato da alcuni critici e giornalisti legati al fascismo in una sorta di idolo letterario, in una rivalutazione inaudita. Tradizionalmente la critica, nonostante l’amore che il pubblico, il suo pubblico, gli tributava, lo aveva considerato al più un buon inventore di trame per ragazzi, quando non un po’ troppo esagitato e violento, diseducativo e soprattutto rozzo e raffazzonato nello stile. Insomma, uno scrittorucolo di secondo o terz’ordine, che però vendeva. E invece tutto cambia: gli apologeti fascisti arrivano a definirlo il «poeta di battaglie per la gioventù italiana», patriottico nemico del «sentimentalume» e dei «romanzi sdilinquiti» che infiacchivano gli italici giovinetti, cantore di vittorie, imperi, eroici valori di ardimento e eroismo. In una parola, un prefascista, per il quale si invoca un’edizione nazionale a spese dello Stato (cosa che, con tutto il rispetto e l’amore per Salari, non era stata fatta nemmeno per Dante…). Con la connivenza degli eredi, e in particolare del figlio Omar, che, con il suo ambizioso sogno di creare un impero salgariano multimediale, non si fa scrupoli nel corteggiare la propaganda del regime, vengono pubblicati libri di memorie, di ricordi e testimonianze (Emilio Salgari: Documenti e testimonianze viene addirittura stampato a Predappio e può vantare la prefazione di Lucio D’Ambra, Accademico d’Italia) in cui il romanziere diventa un santino littorio, instancabile viaggiatore (lui che, com’è noto, mai lasciò l’Italia e i suoi grandi viaggi li faceva in biblioteca: ma in nome dell’anticulturalismo questo viene nascosto, e secondo Omar le nozioni enciclopediche che abbondano nei romanzi del padre erano invenzioni frutto di una sorta di trance con scrittura automatica), pirata in prima persona e amico di un reale Sandokan, e ovviamente feroce odiatore di inglesi (Ah, la “Perfida Albione”), con tanto di aneddoti oltre ogni credibilità (un cane che capisce tutte le lingue del mondo tranne l’inglese) e coerenza logica (in gioventù, Salgari si sarebbe innamorato di una piccola inglese la cui istitutrice, inglese anch’ella, gli tiene lontano; e da ciò, non si sa come, il feroce odio per gli anglosassoni. Per non parlare dell’amore per una certa Miss Eva Stevenson, come l’autore dell’Isola del Tesoro, che gli muore tra le braccia nelle sue avventure malesi…).
Va da sé che tutto ciò non ha niente a che fare con il vero Salgari. Sono mistificazioni, imbrogli, distorsioni della realtà, letture ideologicamente orientate che vedono solo quello che vogliono vedere. Naturalmente molti già si erano accorti delle assurdità sbandierate da questi apologeti, ma questo non impediva loro di continuare imperterriti. Eppure basta leggere i romanzi di Salgari per rendersene conto. I suoi eroi per credere credono, per combattere combattono, ma sull’obbedire decisamente non ci siamo: sono sempre dei ribelli, dei pirati, dei libertari per lo più frequentemente anti-imperialisti (e Paco Ignacio Taibo II sottotitola il suo divertente pastiche salgariano Ritornano le Tigri della Malesia! proprio …più antimperialiste che mai non a caso). Forse non bisogna forzare troppo l’interpretazione in questo senso (in fondo Salgari era pur sempre un uomo del suo tempo) ma lui non era uno scrittore politico o ideologico: ci sono cose giuste e cose sbagliate, un’epica semplice del coraggio e della lealtà, ci sono i buoni e i cattivi, e i cattivi sono spesso i potenti oppressori e i buoni i ribelli che non intendono essere oppressi. Non odiava gli inglesi, che sono sì i nemici di Sandokan, ma anche eroi di altri romanzi. Del resto, si guardi Yanez: un portoghese che si è fatto apolide, che si è messo contro gli europei ed è diventato fratello di sangue di un pirata malese, non si sa se per senso di giustizia, amor di libertà o chissà cosa. La sua lealtà non va alla patria in cui è nato, ma a quella che si è scelto, Mompracem, isola mitica in cui le razze sono solo nomi esotici e fascinosi che Salgari pescava da qualche atlante o libro d’antropologia. Quando Lucio D’Ambra scrive che tutta l’opera di Salgari «non è che un grido dalla prima all’ultima delle sue trentamila pagine “Viva l’Italia!”», non si capisce come questo sia possibile. Del resto, chi cerca di tirare acqua al proprio mulino ideologico raramente si impegna nell’argomentazione, basta lanciare qualche slogan e vedere che effetto fa (e viene in mente un certo ministro che, poco tempo fa, asseriva esser Dante il fondatore del pensiero politico di destra in Italia e nulla più). Gli italiani, tra le «trentamila pagine», non sono poi molti. I naufraghi de I Robinson italiani, Capitan Tempesta, gli allegri artisti squattrinati dell’autobiografico La Bohème Italiana, naturalmente il Corsaro Nero: questi, un cavaliere del ducato di Savoia di nome Emilio, e non serve la psicanalisi per leggerlo tra le righe, è un ingenuo omaggio da parte di Salgari a casa Savoia (che da poco lo aveva nominato Cavaliere) e a se stesso, non certo alla «razza italiana» «con il suo intrepido cuore di italiano purissimo», come asseriva sicuro Alberto Viviani ai tempi del regime. Almeno, non nell’originale.
In questi anni, infatti, Omar e la sua scuderia di ghost writer producevano una serie di «romanzi postumi» col nome di Salgari in copertine, dei falsi che in genere risultavano al più buone imitazioni, ma in gran parte remake di romanzi autentici, un insieme di situazioni riciclate ormai di quarta e quinta mano (già Salgari stesso, nell’ultimo periodo in special modo, tendeva a replicarsi, oppresso com’era dalle scadenze), un’infinita serie di sequel e prequel con personaggi che fossero già arcinoti (quelli il lettore voleva) e corsari multicolore, figli di Sandokan e cugini di Yanez: I Tughs alla riscossa, Sandokan nel Labirinto Infernale, La figlia del Corsaro Verde, Il Vulcano di Sandokan, Il Fantasma di Sandokan…
Titoli che davano al lettore le cose di sempre, semplicemente edulcorando un po’ la violenza, semplificando e aggiornando la veste linguistica. In alcuni casi, però, il fascismo finisce per contaminare lo spirito degli eroi salgariani.
Le Ultime Imprese del Corsaro Nero è per la verità un libricino sottile, in cui ad ogni pagina di testo ne corrisponde una occupata da un’illustrazione in bianco e nero: mancano i balloon per farne quasi un graphic novel. Nonostante il nome di Emilio sulla copertina è uno dei falsi, pubblicato nel 1941 e scritto probabilmente da Riccardo Chiarelli (come ha argomentato Maurizio Sartor). Per quanto riguarda il contenuto, vorrebbe fare da ponte tra La Regina dei Caraibi (secondo romanzo dedicato al Corsaro) e Jolanda, La Figlia del Corsaro Nero, e finisce per centonare e rimontare il finale del primo, qualche situazione e descrizione dei romanzi originali, una spruzzata di religiosità di comodo per non turbare gli educatori e portare il finale in uno scenario tutt’altro che esotico, le valli piemontesi. La cronologia storica, che già in Salgari era piuttosto incerta e scricchiolante (preferiva piegare la Storia alle esigenze del romanzesco), qui va in pezzi, e le vicende oscillano tra la fine del Seicento e oltre la metà del Settecento. Quel che sgomenta è la trasformazione del Corsaro Nero stesso: da eroe post byroniano, cupo, tormentoso, votato ad una pulsione di morte e al terribile giuramento di vendetta che lo lega ai fratelli defunti, diventa un eroe molto più solare, virile, il cui valore si moltiplica all’eccesso. L’esotismo salgariano cede il posto all’imperialismo vagamente razzista dell’eroe bianco che trionfa sui selvaggi facendoli ubriacare con l’aguardiente (pratica per altro stigmatizzata da Salgari in alti romanzi), e Moko, il compagno africano dei pirati, si riduce allo stereotipo del buon selvaggio. Il romanticismo furibondo degli eroi salgariani, che forse fa sorridere il lettore moderno, qui si trasforma in un sentimentalismo da aperte risate, in scambi dialogici di questo tenore:
Quando fu all’interno del «carbèt» tenuamente illuminato, due braccia gli cinsero il collo, una testolina gli si posò sulla spalla e un soave profumo di capelli lo stordì, mentre la voce a lui tanto cara sospirava con abbandono:
– Mio signore!
– Honorata! Amor mio!… – mormorò il gentiluomo con voce rotta dalla commozione, stringendosi sul cuore l’adorata giovane.
Le loro bocche si congiunsero in un lungo bacio e quelle due giovinezze così duramente contrastate dal loro tragico destino trasfusero nei più languidi sospiri tutta la piena del loro purissimo, grande amore.
Honorata si sciolse da quell’abbraccio ineffabile per chiedere con ansia:
– Vi hanno fatto del male, cavaliere?
– No, madonna; ma se aveste tardato un attimo…
Ma soprattutto, in questo falso trionfa l’italianità esasperata. Carmaux, biscaglino, e Wan Stiller, amburghese, i fedeli compagni del Corsaro Nero, vengono tagliati dal cast, e sostituiti da Giorgio e Vittorio, figurine senza personalità, però italiane. La retorica patriottarda la fa dunque da padrona, e sfocia in sproloqui come:
– Miei compatrioti! – esclamò il Corsaro Nero con un lampo di orgoglio e di nostalgia nello stesso tempo. – La mia Italia! Il mio forte Piemonte!
– Le nostre aquile, mastro Coffa – rispose il Corsaro Nero con una punta di naturale orgoglio, – c’invidiano l’acutezza della vista: i nostri ghiacciai non sono più freddi del nostro sangue, nell’ora del cimento: e il nostro ardore nel combattimento pareggia la possanza indomabile dei vulcani italici! Italia! Italia!
– Piemonte! Italia! Terra immortale! Alpi immacolate! Sconfinato mare!
Il Corsaro Nero muore nell’ultima battaglia con lo straniero avido e rapace (i francesi), con «il vessillo sabaudo intriso del suo sangue ne copriva il petto», mentre «gli eroi che si erano immolati con lui per la grandezza della Patria gli riposarono accanto, scolte eterne sul baluardo italiano», per poi essere quasi assunto in cielo tra le stelle.
Qui è il nazionalismo esasperato del fascismo a parlare, la retorica del duce fatta di “Vincere” e ordini irrevocabili e categorici, misticismo, virilità e velleità di potenza, con esiti involontariamente umoristici. Basti pensare che a voler spezzare le reni agli indigeni, come Mussolini voleva farlo al negus e alla Grecia, è Moko l’africano.
Ed è questo il risultato del reclutamento forzato degli eroi salgariani tra le camicie nere, perché ovviamente il Salgari precursore del fascismo è un prodotto a posteriori, posticcio, che non esisteva da nessuna parte.
Cesare Marino
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