Mirko Tondi – Brandelli di uno scrittore precario 3 – Sulla riscrittura e sull’ostinazione
Mentre scrivo questo pezzo, alla radio parlano dei sessant’anni di Sharon Stone. Da ragazza lavora in un McDonald’s, dove un talent scout la scopre per un’importante agenzia di moda. Nel 1980 fa il suo debutto al cinema come comparsa in Stardust memories di Woody Allen, ma ce ne vogliono altri dieci perché abbia una parte di rilievo, come protagonista femminile di Atto di forza (diretto dallo stesso Paul Verhoeven che due anni più tardi le regalerà un ruolo cult in Basic instinct); qui i puristi della settima arte maligneranno che non si tratti certo di un capolavoro, ma il ricordo personale di quelle vacanze di Natale del 1990 nelle quali andai a vederlo in un cinema di Viterbo con mio cugino, beh, questo per me attribuisce al film un valore affettivo ben superiore rispetto a quello effettivo. Nel 1995 Sharon Stone interpreta una donna tostissima nel film di Martin Scorsese, Casinò, e questa prova le vale una nomination all’Oscar. Nel 2001, a soli quarantatré anni, un’aneurisma quasi la uccide: le dicono che ha solo il 5% di possibilità di sopravvivere, la parte sinistra del suo corpo perde le funzionalità e per tre anni non riesce a scrivere il suo nome. E oggi? Oggi recita in una serie prodotta da Steven Soderbergh e ha mille altri progetti, tra cui un nuovo film con Scorsese. Questa donna ha tutta la mia ammirazione. Premessa lunghetta, direte voi, ma l’esempio mi serviva più che mai per introdurre il concetto del non mollare, non arrendersi mai.
Dopo aver parlato dell’attrice, alla radio hanno passato un brano di Sly & the Family Stone (non a caso) che mi è sempre piaciuto: Everyday people. La cosa mi ha fatto riprendere contatto con la mia grande ossessione, ovvero scrivere un romanzo sulla musica soul. Nel 2011, per partecipare a un concorso, scrissi la prima bozza di questo romanzo in cinquantatré giorni, per una lunghezza complessiva di circa duecento cartelle. Mi alzavo alle sei di mattina per poter scrivere fino alle sette e mezzo e poi andare al lavoro. Ciò può anche sembrare un’impresa, se non si analizzano i dettagli. Il dettaglio principale però è che quel romanzo fosse di pessima qualità: personaggi stereotipati, situazioni riciclate, forzature narrative, moralismo di fondo, messaggi fin troppo espliciti e un finale consolatorio. Inoltre non c’era solo il soul, ma anche il jazz, e poi c’erano il cinema, la letteratura, il tema dei disadattati, della solitudine e chissà cos’altro. Troppi elementi, insomma. Troppi elementi per poterli gestire a quel tempo, troppi per il tipo di romanzo e di personaggi che volevo raccontare. In questi sette anni ho ripreso quel libro più volte, depurandolo appunto dagli elementi in eccesso e concentrandomi su quelli giusti, riadattando lo stile e insistendo su una coerenza generale. Un lavoro infinito, certo, e nauseante per giunta. Ma l’ostinazione mi appartiene come poche altre caratteristiche: dovessi metterci altrettanti sette anni, lo porterò in fondo.
Proprio in questi giorni ho letto un lungo scambio epistolare tra John Fante e H. L. Mencken, direttore della rivista The american mercury fino ai primi anni Trenta: difatti fu colui che scoprì il talento di Fante, pubblicando prima di tutti gli altri i suoi racconti. In alcuni passaggi Mencken sottolinea come sia più semplice cominciare un nuovo testo anziché riscriverne uno vecchio. Verissimo. Non si parla di correzioni, di editing (argomento che, magari, tratteremo la prossima volta), ma di riscrittura, in sostanza qualcosa di molto diverso. L’editing, quell’intervento talvolta anche massiccio che scava nella profondità del manoscritto, non può essere che operato da una figura esterna; la riscrittura invece viene effettuata dall’autore stesso e da nessun altro (ghost writing a parte). Magari ciò che avevate scritto non funzionava. Magari sono passati anni e non vi ci riconoscete più. Magari il vostro stile è cambiato e adesso dovete ritoccare tutto.
Un’altra cosa mi ha colpito in quelle lettere: in una di queste Mencken suggerisce a Fante di lasciar perdere i primi due romanzi, cestinarli proprio. È un processo naturale quello che porta al miglioramento tramite l’esercizio, e d’altronde sono così pochi i casi di romanzi straordinari scritti all’esordio, magari da giovanissimi (d’accordo, è vero che Moravia scrisse Gli indifferenti a ventidue anni… ma esistono pur sempre le eccezioni, no?). Nel leggere questo mi sono reso conto che in effetti, nel 2012, io avevo dato alle stampe il mio primo romanzo, ma quello in realtà non era il primo. Oltre al romanzo soul, ce n’era stato un altro abbandonato a tre quarti, una storia thriller dal sapore americano, che trattava la sparizione di bambini in una città immaginaria. Allora leggevo cose diverse, e quest’ultimo romanzo era frutto delle mie letture. A pensarci oggi, non mi dispiace affatto di non averlo finito. Certe volte bisogna lasciar scivolare via i propri scritti, soprattutto quando questi smettono di parlarci di giorno e di sussurrarci nel sonno. Quando non ci comunicano più niente, è andata, conviene lasciarli a macerare nell’hard disk del computer, chissà che un giorno non si ritrovi là dentro qualche idea ancora buona, o magari degli estratti da riutilizzare. Altre volte invece certi scritti tornano a tormentarci, scritti incompleti o che chi hanno lasciati insoddisfatti, ed ecco che la nostra ostinazione diventa più forte di tutto. Di tutto. Insomma, può darsi che un giorno vi capiterà di leggere questo romanzo soul, mettetelo in conto.
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