Andrea Pauletto – Il gioco
Tommaso e Marika si sposarono senza scarpe nell’orto dietro casa.
I piedi nudi sprofondavano nella terra come le radici degli alberi di noce.
Alla loro destra c’erano file di pomodori non ancora maturi, zucchine, fave e cetrioli. A sinistra un’immensa distesa di piante di patata e di fronte, altissimo e con i capelli che parevano fatti d’alluminio, un prete immaginario.
Marika dopo aver detto “sì, lo voglio” pianse.
Tommaso le strinse la mano “sì, lo voglio” disse anche lui, si passò la lingua sulle labbra secche, sputò per terra e la baciò sulla bocca.
Due metri più in là, riparati dal sole, si avvicinarono al letto nuziale, un grande materasso ricoperto di polvere, terra e feci d’uccello.
Marito si tolse la giacca nera e larghissima. La lanciò sul letto e ci spinse Moglie sopra, che aveva da poco smesso di piangere per finta. Estrasse dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto di stoffa e si asciugò dal sudore, che era tanto e scendeva velocissimo dalla fronte fino al mento per poi gocciolare sulle dita dei piedi dandogli un gran fastidio.
“Mettimi una mano sotto la gonna come fanno i grandi”
“Zitta” disse lui. Rimise il fazzoletto nella tasca e le si sdraiò accanto posandole una mano sulla pancia. Gli occhi erano di un bel verde alloro, le labbra di un rosso pomodoro maturo e i capelli, nella forma e nel colore, identici al ragù.
La pelle era lucida e asciutta come quella di una statua in marmo, una di quelle esposte nei grandi musei, una di quelle che per farla così bella ci sono voluti anni e sudore, sangue e saliva, muscoli e nervi.
“Mi gira tutto” disse Moglie.
Si alzò piano, chiara in viso più del vestitino da cerimonia che indossava. Le gambe erano cosparse di polvere e appesi ai riccioli che le coprivano la testa c’erano un paio di millepiedi pelosissimi che solo a guardarli veniva il prurito, roba da versarsi addosso un litro di benzina e chiedere alla propria madre di accendere il fuoco pur di eliminare il fastidio sulla pelle.
“Caro, non mi sento bene”
Marito si tirò in piedi di scatto, anche lui impolverato “Ferma. Hai due mostri sui capelli” raccolse da terra un bastoncino e glieli fece saltare via.
“Stai meglio, ora?” chiese lui.
Non rispose. Con una mano sulla fronte e l’altra sulla pancia, camminò verso un piccolo tavolo di legno che si trovava sotto l’unico pino cresciuto nell’orto. Le gambe erano montate storte e la superficie non era stata piallata. Sopra c’era un coltello con l’impugnatura in pietra e la lama corta, affilata su entrambe le facce e parzialmente arrugginita. Alla base di quello che in realtà era un banco da lavoro c’era lo zainetto di Marito. Moglie estrasse qualcosa e se lo infilò sotto la gonna, prese il coltello, lo lanciò verso il coniuge che lo prese al volo, e con la pancia gonfia si sedette sul piano facendo i versi.
“Ah. Ih. Oh. Uh. Ah. Ahi. Ahi”
Si stese a gambe larghe.
Marito le si avvicinò con il pugnale stretto nella mano “Respira forte” disse.
Con la mano libera le schiacciò la pancia, una, due, tre, quattro volte. Le urla di Moglie si intensificarono. “Zitta” disse lui.
“Fai ffh. Ffh. Tieni dentro, butta fuori. Tieni dentro, butta fuori. Ffh. Ffh”
Smise di fare pressione sulla pancia e infilò tutte e due le mani sotto la gonna. Strinse i denti, chiuse gli occhi e iniziò a tirare.
“Ffh! Uff! Ffh! Uff!”
“Fai uh. Uh. Uh. Uh” disse Marito.
“Uh! Uh! Uh!” fece Moglie.
“Uh! Uh! Uh! Uh! Uh! Uh!”
Figlio nacque poco prima delle due di pomeriggio. Era in plastica dura color rosa chiaro, gli occhi azzurri e i capelli sintetici biondo sole. Indossava una camiciola e un paio di mutandine in tessuto bianco.
Marito lo stringeva tra le braccia camminando avanti e indietro.
Moglie distese le gambe, si alzò, scese dal tavolo con un balzo e strappò Figlio a Marito, che ci rimase male.
“Tua moglie e il bambino hanno fame. Vai a cercare qualcosa da mangiare. Sei tu l’uomo di casa” disse Moglie puntando il dito verso le piante di verdura.
Il coniuge, con gli occhi lucidi e la testa bassa, si incamminò verso la coltivazione.
Si mise in ginocchio sulla terra lavorata. I riccioli dei capelli neri, zuppi di sudore, crollarono sulla fronte e il collo e le braccia iniziarono a cuocere come carne di maiale in padella.
Infilò il coltello nel terreno e si mise a scavare come un ossesso. Moglie lo osservava da lontano seduta sul letto nuziale con Figlio in braccio.
Lavorava ad una velocità assurda, l’energia in tutta la struttura corporea di scricciolo pareva inesauribile. Nel giro di dieci minuti sradicò una dozzina di piante, poi strappò dalle radici le patate e dai rametti i pomodori acerbi e avvolse il tutto nella maglietta impolverata che si era sfilato.
Dal viottolo al di là degli alberi proveniva un rumore di ghiaia calpestata. I sassi sembravano rompersi sotto il peso di un mezzo pesante. Un’auto di grossa cilindrata, un fuoristrada, oppure uno di quei piccoli trattori che servono per tosare l’erba. Marito si alzò, lasciando le piante sdraiate con le radici libere di seccarsi dalla sete. A petto nudo, piedi lerci, pugnale in tasca e raccolto nelle mani, uscì dal campo.
Lasciò il cibo sul materasso e chiese a Moglie di nascondersi. Lei si rifiutò “Questa è casa mia” disse “Io non mi muovo”
“Zitta. Fai quello che ti dico. Sono io l’uomo” le diede uno schiaffo facendole cadere dalle mani il pargolo.
Con una mano sulla guancia e gli occhi lucidi obbedì nascondendosi dietro un albero poco lontano. Lui superò di qualche metro il tavolo di legno, si abbassò come a voler cogliere un fungo e a carponi raggiunse una parete di piante aromatiche alta più di un metro che separava la proprietà dall’esterno.
Infilò una mano tra le foglie creando uno spiraglio per poter vedere quello che succedeva fuori.
La Saab grigia aveva la fiancata impiastrata di terra secca. Al posto di guida c’era un uomo con i capelli lunghi e bianchi come un nido di larve.
Aprì la portiera, buttò della carta per terra e dopo essersi sfregato la mano sul petto, accese un strana sigaretta, sottile sottile, come quelle che fumano i vaccari nei film americani. Il fumo lo buttava fuori solo dal naso.
Scese dall’auto. Somigliava a un bue senza zoccoli con le sopracciglia folte e nere. Aprì il baule e tirò fuori una gabbia con dentro due grossi conigli di allevamento.
Chiuse il bagagliaio e camminò verso la parete verde. Marito, cercando di non fare fracasso, raggiunse Moglie dietro l’albero.
Il bue dai capelli bianchi spostò un mucchio di rami appoggiati alla siepe, dietro i quali si nascondeva una fessura abbastanza grande da farci passare un puledro.
Arrivato in prossimità del banco estrasse dalla gabbia uno dei due animali e tenendolo per le zampe posteriori, dopo averlo sdraiato sulla superficie, lo stordì con due pugni secchi sulla nuca.
Marito e Moglie iniziarono a tremare.
L’uomo sdraiò il secondo coniglio, si dimenava con più foga del primo che aveva la lingua di fuori e il naso sporco di sangue, lo colpì sul cranio una volta. L’animale emise uno strano fischio, ricevette un’altra sassata e fece silenzio.
L’assassino estrasse dalla tasca un fazzoletto di stoffa incrostato. Si soffiò il naso con una tale forza da fare spavento ai passeri in volo.
Il muco gli ciondolava dal mento, un po’ gliene rimase appiccicato anche alle labbra. Trascinò dai polmoni fino alla bocca catarro in gran quantità e lo sputò in direzione dell’albero dietro il quale erano nascosti i bambini mancando per poco la corteccia, un ammasso color giallo ocra capace di far vomitare il più goloso dei porci. Si guardò intorno in cerca del coltellino che aveva dimenticato il giorno prima. Vide il bambolotto sul materasso. Si avvicinò bestemmiando. Moglie lo osservava preoccupata per la sorte del piccolo. Marito fece cadere il pugnale e si tuffò nell’erba alta con in mano la refurtiva allontanandosi strisciando come un lombrico.
Moglie raccolse la lama. Il contadino bestemmiava con in mano il bambolotto. Prima lo strinse forte, poi lo scosse. Stack.
Gli ruppe un braccio. Lei uscì allo scoperto e corse verso di lui con la lama a mezz’aria.
L’uomo lanciò nell’erba Figlio, schivò il fendente e afferrandola per i capelli la stese sul materasso.
Le tolse l’arma dalla mano. Urlava e si contorceva come se le avessero ucciso un figlio vero.
La abbracciò rischiando di beccarsi un paio di pugni in faccia.
Le asciugò il viso promettendole che avrebbe aggiustato il bambolotto, la prese per mano e la riportò a casa.
Marika aggrappata alla camicia del padre liquidò il contadino chiudendogli la porta in faccia.
“Ha ucciso mio figlio” disse.
“Dov’è Tommaso?” chiese lui.
“Mi ha lasciata” rispose.
La prese in braccio e fece le scale dicendole che lui non l’avrebbe mai abbandonata. Arrivarono all’altezza del primo piano, dove c’era il bagno e le camere da letto, ma lui continuò a salire fino ad una piccola porta in metallo. La aprì, fece scendere Marika, la tirò dentro con lui e richiuse la porta alle loro spalle.
“È buio qui”
“Ti insegno un nuovo gioco” le disse carezzandole il collo.
“Ho paura”
“Zitta. Stai zitta”
Andrea Pauletto
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