Antonella Bagorda – “Dignità”
Con quel primo scatto riuscì ad immortalare il momento esatto in cui la ragazza perdeva dignità e verginità. E poi la sua espressione innocente che in un solo batter d’ali passò dall’essere terrorizzata a rassegnata. L’obiettivo della reflex non riuscì però a raggiungere anche lo sguardo dei carnefici. Se ne rammaricò, gli sarebbe piaciuto collezionare un po’ di primi piani; non tanto di quello che stava addosso alla giovane e che le toglieva fiato, voce e sogni di una prima volta indimenticabile, no, quelli erano poco interessanti. Gli occhi interessanti da collezionare sarebbero stati quelli del maschio che guardava. Il maschio che stava proteggendo quell’atto affascinante dall’invadenza di occhi e presenze indiscrete. Il maschio che, coi pantaloni gonfi e gli ormoni alle stelle, copriva le spalle al suo compare, convinto che la prossima volta i ruoli si sarebbero invertiti e sarebbe toccato a lui condurre la danza. Perché ci sarebbe stata una prossima volta. Oh, sì. Certamente.
Era tardi; pensò che anche quel giorno aveva raccolto abbastanza materiale per poter purificare la sua anima dai peccati quotidiani. Cercando di non fare il minimo rumore si allontanò dal suo cantone buio, non voleva correre il rischio di interrompere quel rituale che si stava svolgendo con estrema cura di particolari. Arrivò a casa dopo poco meno di dieci minuti; da una scala interna ebbe accesso a quello che sarebbe dovuto essere un garage ma che lui stesso aveva trasformato in una sorta di stanza delle remissioni. Le luci erano basse e rosse e la puzza dei chimici gli entrò nelle narici e lo fece sentire finalmente pulito e al sicuro. Tirò profondamente su col naso mentre posava la reflex su una specie di altare; e chiuse lentamente gli occhi per assaporare meglio quell’estasi. Erano anni che non stampava da pellicola ma non riusciva a rinunciare alla sua camera oscura. Continuava ad appendere ad un filo le sue foto migliori scattate in digitale, come se dovessero davvero asciugarsi dopo il processo di sviluppo. Sulle pareti attorno a lui si poteva seguire la sua personale ed infinita via crucis, fatta da centinaia e centinaia di foto, che si concludeva sulla parete frontale con una stampa molto più grande di tutte le altre. Una stampa in bianco e nero. Nonostante l’assenza di colori si riusciva ad intuire senza alcuna difficoltà che, sotto quel corpo nudo e riverso che aveva immortalato, scorrevano fiumi di sangue.
L’arrivo di un’ambulanza a sirene spiegate lo distrasse dalla sua meditazione. Prese la reflex e uscì senza fretta dal suo tempio; seguì suono e luce dei lampeggianti e lasciò che lo conducessero nel parco poco lontano da casa. Amava quel parco. Lo amava dal giorno in cui ebbe la fortuna di scattare la foto al suo uomo del tempio. Quell’uomo trovato troppo tardi, pochi anni prima; riverso a terra al centro del parco; morto, massacrato di botte. Quell’uomo dimenticato, mai vendicato, annullato, spogliato, lasciato nudo e solo, col suo crocifisso appeso al collo. Quell’uomo di dio. Quell’uomo senza colori. Quell’uomo in bianco e nero. Quell’uomo. Quel sangue. Quel dio. La sua missione.
La ragazza rideva di una risata sguaiata, una risata che lo risvegliò dai suoi ricordi. La vide e quel viso gli parve subito familiare. Lei era in piedi su una panchina, in quel parco dall’illuminazione ambrata; si muoveva freneticamente davanti agli occhi assonnati di un ragazzo sgomento, svegliato in piena notte da una telefonata sconvolgente. Furono gli occhi di quel ragazzo che decise di fotografare, ben nascosto dietro una siepe, nell’angolo più buio del parco. Lei non riusciva a fotografarla, lei preferiva godersela. Lei e la dolcezza della sua illusione, l’assurdità della sua convinzione, quel naso così identico a quello del povero papà. Era un attento osservatore lui, amava i piccoli dettagli; gli ci volle poco a capire chi fosse quella ragazza. Assomigliava così tanto all’uomo che aveva fotografato poche ore prima che non poteva che appartenergli. Aveva avuto modo di osservarlo molte volte quell’uomo; per giorni, sempre alla stessa ora, sempre allo stesso posto; lo vedeva contemplare il vuoto che c’era oltre la balaustra di quel parco; contare i metri che lo dividevano dallo schianto; pensare quanto gli avrebbe giovato trovare il coraggio.
Lo colpiva nel profondo ascoltare le parole di quella ragazza. L’orgoglio che nutriva nei confronti di un papà schiacciato dalla società, dalla famiglia; un emarginato sociale rimasto senza lavoro, senza moglie e senza soldi. In quel momento lei lo riscopriva finalmente l’uomo che aveva sempre desiderato fosse. Un uomo che non si lascia mettere i piedi in testa e che ha il coraggio di prendere in mano la sua vita e farne quello che vuole. Alzava le mani al cielo quella ragazza e rideva; rideva fino alle lacrime. Il ragazzo non capiva. La guardava interdetto e non riusciva proprio a capire, povero stupido, quanta soddisfazione ci potesse essere a scoprire il proprio papà frantumato al suolo, insanguinato, tumefatto, gonfio, dilaniato. Morto. E ogni singolo centimetro di quel corpo era colmo di dignità. Questo pensava la ragazza dal naso identico a quello del suo papà. Pensava che l’uomo che l’aveva generata era finalmente riuscito a chiamare a sé tutto l’orgoglio di cui era capace e di comune accordo, lui e l’orgoglio, avevano preso la decisione di ‘mettere le mani nel barattolo della marmellata’, queste sono le parole che usò quella ragazza, suo padre decise di ‘mettere le mani nel barattolo della marmellata’; di urlare al mondo la sua presenza, di dire basta, di dare una lezione a chi sarebbe rimasto a guardare. Suo padre aveva deciso di reagire. Suo padre aveva deciso di agire. Suo padre aveva deciso di morire. Suo padre aveva deciso. E lei rideva.
“Cosa sta facendo?”
Una voce lo colpì alle spalle mentre cercava la giusta angolazione per cogliere gli occhi vuoti del ragazzo.
“Qui è morta una persona, non è il caso di mettersi a scattare foto, non crede?”
Lo guardava; guardava lui e la sua divisa e pensava che gli stava molto bene addosso. E che avrebbe voluto scattargli delle foto. Anzi, no. A guardarlo bene gli aveva già scattato delle foto; ma non riusciva a ricordare in che occasione era riuscito a immortalare quel poliziotto. Era la rapina al supermercato o il ragazzo morto di overdose? Ebbe l’impulso di correre al tempio a cercarle quelle foto, si girò di scatto dimenticandosi di tutto il resto e fece per andare ma il poliziotto fu più veloce e lo afferrò per un braccio.
“Mi dia la macchinetta fotografica.”
Il poliziotto non fu gentile, non aspettò che gliela porgesse; gliela strappò di mano. Si fece indicare il pulsante per visualizzare gli ultimi scatti; si mise a scorrere a ritroso. E impallidì.
Quello che gli dispiaceva più di tutto non era il dover passare quel che restava della notte in una questura; non era nemmeno dover spiegare cose inspiegabili né perdere il materiale di un intero giorno di lavoro. Quel che gli dispiaceva davvero era che per colpa di quelle foto, la ragazza che gli era tanto simpatica, col naso curioso come quello del suo papà, avrebbe conosciuto una non verità. Sarebbe stata delusa. E non l’avrebbe sopportato.
“Lo sa che rischia la galera?”
L’ufficio del commissario era una stanza buia e umida che puzzava tremendamente di sigaro. Il commissario invece era un uomo sui quarant’anni, con la camicia ben stirata, le borse sotto gli occhi, la cravatta dal nodo impeccabile e la stessa puzza di sigaro che impestava l’aria.
“Si sta chiedendo con che accuse potrei arrestarla e cosa c’è di male a fotografare criminali e risse, omicidi, suicidi e violenze sessuali, no?”
Disse la frase tutta d’un fiato, sull’ultima parola finì la riserva d’ossigeno e gli venne fuori un tono strozzato e buffo. Si capiva perfettamente che era molto nervoso. Si tolse la giacca e si sedette sulla scrivania portandosi un sigarello alla bocca; di quelli che si comprano a pochi euro, col filtro e tutto il resto; una sorta di sigaretta ma più puzzolente, a cui avevano cambiato l’abito. Restò in silenzio per un lasso di tempo imprecisato. Ruminava il suo finto sigaro e giochicchiava con la fede al dito. Arrancava. Era evidente che non sapesse proprio cosa dire.
“Lei non solo ha fotografato l’omicidio di quell’uomo… ma poi è anche sceso nella scarpata per fargli dei primi piani.”
Aveva gli occhi lucidi, non riusciva a capire. Non poteva capire. Riguardava le foto e i conati di vomito che gli venivano su erano impossibili da mascherare.
“Perché?”
La domanda quasi non si capì; si tolse il finto sigaro dalla bocca per continuare a dire ciò che probabilmente pensò fosse utile domandare.
“Per metterle on-line; su qualche porcheria di sito? Oppure è il suo lavoro? Ha un blog? Qualche rivista la paga per questo? Qualche sadico di merda richiede questo schifo? Dica qualcosa dannazione!!!”
Cominciava ad essere preoccupato per lui. Lo vide alzarsi di scatto dalla scrivania perdendo l’equilibrio, lanciare il sigarello ancora spento nel cestino della spazzatura e farsi paonazzo; poi riprendere la giacca e indossarla di nuovo, come a voler tornare ad un tono ufficiale.
“Avrà notato che non ho fatto riferimento ad un suo eventuale coinvolgimento nei fatti. Sa perché? Certo che lo sa. I colpevoli sono tutti qui dentro, nella memoria della sua bella macchinetta fotografica. E li conosciamo quasi tutti. Invece lei no. Io non ho idea di chi lei sia, da dove sia arrivato e cosa ci fa qui. Ma sono certo che lei sia una persona intelligente oltre che un bravo fotografo; e mi aiuterà a capire. E a farmi dimenticare che io la potrei perseguire per istigazione alla violenza.”
A parte qualche scivolata professionale, che però può capitare a tutti, quel commissario cominciava a stargli simpatico. Sorrise al suo tentativo di minaccia sull’istigazione alla violenza, del resto avrebbe anche potuto funzionare e intimorirlo se non avesse saputo per certo che non potevano proprio un bel niente contro di lui. Ma il fatto che il commissario stesse almeno provando a sembrare ragionevole era un gran punto a suo favore. Il problema però restava vivo e reale; come poteva spiegargli l’inspiegabile? Perché lui avrebbe davvero voluto farlo. Avrebbe voluto fargli capire che lui lo faceva perché non c’era una risposta. E che era stata proprio l’istigazione alla violenza a creare i fantasmi che aveva visto in quelle foto. Ma come avrebbe potuto spiegare? Gli avrebbe dovuto parlare di società, di povertà, di giustizia, di fame, di guerra. Gli avrebbe dovuto parlare di vendetta. Gli avrebbe dovuto parlare di dignità. Gli avrebbe dovuto rivelare la sua missione.
Le grida di una donna arrivarono forti e prepotenti da dietro i vetri della finestra socchiusa. Si guardarono.
“Perché?”
Lo avrebbe lasciato andare, ne era certo. Il commissario non avrebbe opposto nessuna resistenza; era stanco e molto provato e non lo avrebbe trattenuto nemmeno un altro minuto. Aveva capito che in ballo c’era molto di più di qualche semplice foto. Il commissario aveva capito che quella era una missione; e che non poteva fermarla. Sì; il commissario aveva capito, ne era certo.
Le urla tornarono a farsi sentire. Nessuna volante partì per cercare di capire cosa stesse succedendo. Nessun poliziotto fu preoccupato né incuriosito da quelle grida. E il commissario voleva solo una risposta da mettere a verbale. E poi l’avrebbe lasciato andare. Ne era certo. Sì.
“Mi dispiace ma se non vuole collaborare sarò costretto a trattenerla.”
Non fece in tempo ad alzarsi per prendere le manette il povero commissario, che si ritrovò il piccolo tagliacarte a forma di spada, regalo di natale dei suoi gemellini, completamente infilato nel collo. Il tonfo delle ginocchia che sbattevano al suolo fu abbastanza imponente.
Lasciò passare qualche minuto, nell’attesa che accadesse qualcosa. Un improvviso suono lungo e acuto lo avvertì che c’era bisogno di un cambio batteria. Scattò un paio di primi piani sfruttando gli ultimi residui di carica; sistemò la fotocamera meglio che poteva e riuscì a farsi un autoscatto prima che il display diventasse completamente nero.
“Che cosa mi ha fatto fare, commissario?”
Si ripulì le mani sulla camicia perfettamente stirata di quel corpo immobile.”
“E tutto per un perché. Perché, perché, perché, perché, perché… Lo faccio perché quando sarò davanti a dio mi serviranno delle prove per dimostrargli che non esiste.”
Riprese la reflex dalla scrivania e si lasciò alle spalle quell’ufficio, quella puzza di finto sigaro e quel commissario che si era permesso di immischiarsi nella sua missione, al punto da spingerlo a diventarne parte attiva. E si chiese se questo avrebbe rischiato di cambiare le cose.
Si scontrò con la ragazza dal naso curioso uscendo dalla questura. Tolse la memoria SD dalla digitale e gliela mise tra le mani. Andando a ritroso le avrebbe concesso di vedere tutto. Avrebbe visto che suo padre, prima di essere spinto, era già dall’altra parte della balaustra. Avrebbe visto che suo padre si sarebbe buttato lo stesso. Avrebbe visto che suo padre era lì per quello. Le stava donando un po’ della sua missione.
E le avrebbe ridato quella sua contagiosa euforia.
E a suo padre la dignità.
Antonella Bagorda
Antonella Bagorda è una trentenne pugliese che, dopo aver vissuto dieci anni nella capitale, è dovuta, con suo disappunto, tornare in terra d’origine. Si è diplomata alla Libera Accademia dello Spettacolo di Roma specializzandosi in regia e sceneggiatura teatrale. Svariati sono i testi inediti che ha messo in scena in questi ultimi anni e svariati i riadattamenti di grandi opere classiche. Il ritorno al paesello ha messo un punto alla seppur breve carriera teatrale e ha dato inizio ad un progetto di piena scrittura, concentrando tutta la sua attenzione su uno stile thriller/noir.
(Foto dal sito AmiciAmici.com
Commenti recenti