Biglietti dalla Val di Cornia – 1 –
Stazione di Campiglia
Stazione di Campiglia del passato, mondo anni Ottanta ancora vivo, edicola con giornali da sfogliare, bar sui binari piuttosto frequentato, mensa ferrovieri aperta a tutti, il cane Lampo di guardia alle partenze. Ti ritrovo landa desolata sotto il sole di luglio abbandonata, due alberghi del tutto impersonali, sterpi e pietrisco, aiole malandate, rastrelliere ossidate, povere bici ormai dimenticate. Una casa triste e deturpata, un tempo bar, persino ristorante, la mensa ferrovieri di mio padre, preda di piante rampicanti. Freddi binari, lucidi e distanti, non un ferroviere a rammentare giorni luminosi del passato, tutto automatico, ormai meccanizzato, strane voci da pochi altoparlanti. Passano autobus diretti a Venturina, pure a Piombino, persino a San Vincenzo, ma la stazione è un bivacco per studenti, turisti stanchi, viaggiatori amorfi. Non è rimasto niente del passato, non pulsano cuori di antichi ferrovieri, scomparse madeleine che cerchi invano, un profumo ormai dimenticato, uno sguardo furtivo, uno zampillo d’acqua, una pianta che non ricordi il nome. Adesso Lampo è solo e abbandonato e la sua statua fa tanta tenerezza.
Vecchia Sezione di via Portovecchio
Vecchia sezione indimenticata di via Portovecchio, dopo il Bar Elba e via Lando Landini, dove in tempi oscuri i fascisti ammazzarono un ragazzo, avamposto proletario del passato, accanto alla fabbrica, al gigante, all’altoforno, tra i casamenti di via Pisa e via Livorno, dove viveva mia madre da bambina. Circolo Giovani Comunisti di Piombino, quando ancora c’era il Partito a confortare le speranze della gente; ricordo ossidato, ruggine rossastra, serrande malandate, parete stonacata. Quel rosso colore che Bertoli cantava, è sbiadito in porpora leggero, impallidito, cara la mia sezione comunista dedicata a Gramsci, alla memoria, pure quella sbiadita, come i colori del passato, come le saracinesche a mezza via, chissà per quanto tempo ancora. Al numero 26 in via Pisacane, – un tempo via di Portovecchio (in fondo c’era una stazione, partivano i treni, lo rammenti?) -, passata la rotonda, s’intravede un fantasma della storia, sezione proletaria d’un paese che ha venduto l’anima al progresso, al consumismo, alla globalizzazione, per arrivare ancora a non capire di che vivere, cosa sperare e, dopo le troppe illusioni del passato, per cosa lottare.
Altoforno assente
Non ti conosce la folaga né la tamerice,
né i gabbiani né le formiche di casa tua.
Non ti conosce il bimbo né la sera
perché tu sei morto per sempre.
Non ti conosce la risacca del mare
né la palude grigia dove ti distruggi.
Non ti conosce neppure il tuo ricordo
perché tu sei morto per sempre.
Verrà l’estate con rossi tramonti
fichi e anguria, monti distanti,
nessuno guarderà la tua figura
perché tu sei morto per sempre.
Perché tu sei morto per sempre,
come tutte le cose senza vita,
ammasso di lamiera abbandonata
in un mucchio di rottami spenti.
Nessuno più ti conosce. Ma io ti canto.
Canto per non dimenticare il tuo profilo
la tua imponente e intrepida eleganza.
Il tuo sentore di morte, di abbandono.
La tristezza al posto del sorriso.
Tarderà molto a rinascere, forse mai,
un sogno così puro, così avventuroso.
Canto il suo ricordo con frasi languide,
rimembro improvviso un finto tramonto.
(Ispirata a Anima assente di Federico Garcia Lorca)
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