Cinema – Cattive storie di provincia, il film
Giacomo Lupi, giovane scrittore di romanzi gialli, vive e lavora in una città di provincia. Oppresso dalla routine quotidiana e da un matrimonio sull’orlo di una crisi, il protagonista si ritrova a far fronte ad un blocco artistico che lo spingerà a cercare ispirazione proprio in quel quotidiano, scoprendo che dietro ad una tranquilla vita di provincia si cela un’esistenza parallela fatta di apparenze e stereotipi, dove ogni persona maschera abilmente il proprio lato oscuro.
“C’è un lato oscuro celato in ognuno di noi?” E’ la domanda che in sostanza guida le riflessioni del protagonista e tutto il plot del film. Può esistere una risposta ad un quesito così complicato? Una domanda simile ed altrettanto complessa assillava la giornalista e filosofa Hannah Arendt: “una persona può fare del male senza essere malvagia?”. Nel suo libro “La banalitàdel male” prova a darsi una risposta, affrontando il processo per crimini di guerra durante il periodo nazista ad Adolf Eichmann: un uomo che, secondo la filosofa, non era né perverso, nésadico,ma “spaventosamente normale”. Il male viene dunque definito “banale”, in quanto è la normalità la più spaventosa di tutte le atrocità.
Giacomo tange con mano questa “banalità”, la esplora e si lascia ispirare, realizzando che la vita quotidiana può diventare lo spettacolo più interessante del mondo. Ne è stregato al tal punto che nient’altro intorno a lui sembra avere più importanza, compresa la sua felicità matrimoniale.
Grazie all’abilità del regista, attraverso il protagonista possiamo anche noi osservare la vita dei personaggi: gli occhi di Giacomo diventano gli occhi dello spettatore. Ne percepiamo sensazioni, emozioni, ma soprattutto possiamo comprendere anche noi quanto innocuo appaia il male, quanto l’apparenza possa ingannare. Nulla ci viene esplicitamente raccontato: la narrazione è guidata da semplici ma efficaci intuizioni visive.
Inevitabile, a tal proposito, il confronto con “La Finestra sul Cortile” di Alfred Hitchcock. Il protagonista Jeff, come Giacomo, guida gli occhi dello spettatore attraverso la sua finestra, ansioso di indagare, ma anche incapace di voltare lo sguardo e di osservare con altrettanta lucidità la propria vita, soprattutto quella sentimentale.
“Cattive Storie di Provincia”, così come il film di Hitchock, assume un forte valore artistico, proprio grazie al concetto di “finestra”. Diversi artisti, infatti, hanno fatto del concetto di finestra un elemento portante della propria carriera, spesso rivoluzionato, come Lucio Fontana, che con i suoi tagli ha ridefinito il concetto di tela come finestra sul mondo, permettendoci di approcciarci ad una nuova dimensione spaziale, o come Renè Magritte, che ha reso la finestra un portale verso una dimensione surrealista, mettendo in crisi il concetto di realtà, facendoci sembrare reale ciò che è mera illusione.
Gli occhi di Giacomo diventano metafora artistica della finestra sul quotidiano: essa è uno spazio di mezzo, il filtro attraverso il quale osserviamo. Come con i nostri occhi, possiamo decidere cosa vedere: la finestra ci permette di aprire e chiudere il sipario, ci permette di vedere e di essere visti, ma anche di nascondere e nascondersi. Connette il nostro mondo interiore con ciò che ci circonda.
Un ulteriore riferimento artistico inevitabile è con il padre dell’arte concettuale ed inventore del Ready-Made, Marcel Duchamp. Egli rende arte ciò che arte non è, semplicemente decontestualizzando l’oggetto, portandolo dunque in un contesto artistico. In questo modo dà vita ad un’opera d’arte provocatoria, basata sul concetto dell’unione degli opposti: portare un oggetto di uso comune in un ambiente ricercato come un museo mette in crisi il concetto di stereotipo artistico. Questo concetto di ossimoro e di superamento degli stereotipi lo riscontriamo in “Cattive Storie di Provincia” non solo nel plot, ma anche nella scelta della color correction che appare kitsch, portandoci a pensare di trovarci di fronte a scene grottesche, al limite del comico, per poi avere come risultato l’esatto opposto. Uno stile innovativo per un lungometraggio che rivoluziona le color stereotipate cupe e seriose dei film di genere noir/thriller. Unisce l’alto col basso, dissacra ciò che è ormai radicato nel pensiero di massa, spingendoci a superare i nostri limiti culturali nei quali siamo rinchiusi.
“Cattive Storie di Provincia” di Stefano Simone è, in conclusione, un connubio perfetto di arte e maestria, un lungometraggio tecnicamente coraggioso, ma che soprattutto sa intrattenere, tenendo il telespettatore col fiato sospeso ad ogni inquadratura.
Annarita Calvano
Cattive storie di provincia è un mio libro del 2009, credo che sia la mia ventottesima pubblicazione, ha dieci anni esatti e se li porta abbastanza bene, anche se è lontano anni luce dalle cose che scrivo oggi, al punto che – se rileggo quelle storie – mi sembrano scritte da un altro. Ringrazio Stefano Simone che ha riesumato la mia prosciugata vena noir, sepolta sotto tonnellate di ricordi e di madeleines, dispensate a piena mani tra Calcio e acciaio, Miracolo a Piombino e Sogni e altiforni. Cattive storie di provinciaè il mio lato oscuro, si compone di tredici racconti neri venati di crudo realismo per dimostrare che non esistono isole felici. Piombino è lo scenario dove sono ambientati oscuri fatti di cronaca, storie di vite che si concatenano e danno vita a finali sorprendenti, omicidi atroci, delitti in famiglia, esplosioni di violenza incomprensibili. Rileggo una mia dichiarazione del tempo: “Tutto questo è la provincia italiana, il luogo geografico dove sono localizzati la maggior parte degli omicidi efferati. La Toscana fa da paradigma della globale situazione italiana”. (Gordiano Lupi). I titoli delle storie: Il palazzo, Un ragazzo di nome Simone (novelization del triste caso Cantaridi), La villa dei lamenti, La casa scomparsa nel bosco, La chiesa maledetta,La ragazza dal vestito rosso, La scala dei ricordi, Oltre ogni limite, Pellicole di terrore, Per sempre insieme, Il supermercato, La spiaggia e Notte di sangue.
CATTIVE STORIE DI PROVINCIA è un film “nato per gioco”; dopo che vari progetti (alcuni dei quali anche annunciati) non si sono potuti realizzare per diversi motivi, ho deciso di rispolverare questa storia che tenevo custodita nel cassetto da circa dieci anni. Un plot semplicissimo ma allo stesso tempo particolare che trae liberamente ispirazione da quattro racconti dell’amico scrittore Gordiano Lupi contenuti nell’antologia “Cattive storie di provincia” ed edita da Acar Edizioni di Milano. Così, dopo anni, son tornato a scrivere personalmente una sceneggiatura e, dopo aver partorito un copione completo nel giro di poche settimane, ho assemblato velocemente un cast di interpreti perfetti e professionali. Il film è un noir estremamente contemporaneo che si diverte a giocare con gli stereotipi del genere, rielaborandoli in chiave del tutto personale. Facendo chiaramente le debite proporzioni, lo ritengo una sorta di rivisitazione moderna del cult La finestra sul cortiledi Alfred Hitchcock: una storia raccontata in toto dal punto di vista del protagonista, dove vediamo – ed interpretiamo – tutto attraverso i sui occhi; insomma, l’apoteosi della dialettica oggettiva/soggettiva, in cui il racconto si snoda attraverso la continua alternanza tra oggetto guardante e soggetto guardato. Una tecnica semplicissima che ho trovato adeguata per raccontare l’ipocrisia e il lato oscuro che si celano dietro l’apparente tranquillità della vita di provincia, dove ognuno nasconde segreti reconditi e dove niente è davvero ciò che sembra. Un film di puro intrattenimento che, pur toccando tematiche attuali, si stacca dai lavori di stampo sociale che ho realizzato negli ultimi anni. Un film in cui, abbandonando gli stilemi documentaristici, mi sono divertito ad esplorare nuove tecniche registiche e visive: a tal proposito, direi che è stato essenziale conoscere Jonas Akerlund, affermato regista svedese di videoclip che ha realizzato interessanti film come gli ultimi due Polare Lords of Chaos, due visioni (specie il primo) che ai fini della realizzazione di Cattive storie di provinciasi sono rivelate determinanti. Studiando lo stile visivo molto kitsch e grottesco e abbinato ad una regia semplice e apparentemente lineare dell’ex batterista dei Bathory, ho conferito al look del mio nuovo film un che di inedito e nuovo nella mia filmografia, un look anche un po’ in controtendenza con gli standard fotografici del cinema e più vicino all’estetica video, un look caratterizzato da colori forti e saturi, proprio per sottolineare la contrapposizione tra l’apparente bellezza della provincia ed il lato oscuro di chi ci abita.
Gli interpreti sono come sempre tutti di Manfredonia: Luigi Armiento, Rosa Fariello, Filippo Totaro, Rita Ciociola, Luciano Falcone, Martina Olivieri, Vincenzo Totaro, Francesco Leone, Gianluca Di Trani, Sabrina Ciuffreda, Tonino Potito, Marika D’Errico, Peppe Sfera ed altri.
Questo lavoro segna anche il consolidamento della collaborazione con “Bee Creative” di Antonio e Annarita Calvano, due splendidi ragazzi che ho avuto il piacere di conoscere sul set de L’accordoe che si occuperanno della parte grafica/pubblicitaria, oltre che delle foto di backstage da allegare al press-book. Le musiche saranno affidate come sempre al fido Luca Auriemma.
Il film è stato girato in 4K UHD, attualmente è in fase di post-produzione e appena sarà pronto si valuterà la miglior strategia di distribuzione.
Stefano Simone
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