Corri, Lara, corri – Laura Romanelli
Si svegliò, era arrivata quella mattina, davanti allo specchio era sempre la stessa, le rinviava la stessa faccia, una ruga più profonda le conferiva austerità, la stigmate del suo essere. Si era preparata a quell’evento mondiale con caparbia attenzione. Corri, per te sola.
Seduta sul letto di quell’albergo anonimo, prese il moncone fra le mani e lo massaggiò con cura; lo guardò senza più ribrezzo, lo tollerava anche se le mandava stilettate ad ogni passo.
Una vita prima aveva due gambe, poi una notte era schizzata sulla moto, sudata euforica, abbracciata al ragazzo; facevano le pieghe mentre la strada andava via veloce, curva dopo curva, due fari improvvisi, fece un volo in aria e più nulla. Silenzio, odore di disinfettante e voci lontane. Si era risvegliata in un letto di ospedale, le spiegarono tutto, la gamba fracassata, il sangue perso, unica scelta: amputare. Aveva osservato le coperta e quel vuoto anomalo. Aveva alzato il lenzuolo e provato disgusto per quel moncone fasciato e il nulla che lo seguiva. Non emise fiato; non volle più nessuno intorno a sé; esisteva lei e il vuoto della gamba che nel suo cervello urlava. Arto fantasma. Condannata a sentire l’esistenza di una parte di sé che non c’era più.
Iniziarono presto le terapie per preparare l’arto alla protesi, lo doveva accudire come si fa con un figlio, impomatarlo, massaggiarlo, lo vedeva deforme, un pezzo di carne inutile. Il terapista la mise in piedi sulla gamba in alluminio, con piede dinamico, capace se ben comandato di restituire tutta la forza di spinta per dare al passo un movimento naturale; avrebbe potuto fare tutto se avesse voluto. Imparò a mettere la calza sul moncone, poi la cuffia per infilarsi la finta gamba che terminava in una molla, il suo nuovo piede e così camminare. Durante il giorno nessuno avrebbe immaginato che lei portasse una protesi, indossava pantaloni larghi, si muoveva morbida; aveva cambiato amici, lavoro; disperso il passato in una vita solitaria, il suo tempo correva fra disegni e parole scritte, nelle quali si inventava un’altra sé. Ogni sera però era costretta a ricordare, quando rimaneva con quel mezzo arto a saltellare fra camera e bagno.
Aveva preteso una protesi per correre, non sapeva perché, forse per sfida o un tentativo per scappare da quella realtà obbrobriosa. Nascosta a tutti, si allenava in pista. In quell’anno aveva imparato la partenza ai blocchi, la falcata in progressione e le era piaciuto diventare sempre più veloce, elettricità, dimenticava e usciva da sé stessa. Aveva un corpo snello, nervoso, un cuore forte e la lucidità di chi non si aspetta e non vuole nulla. Solo correre. Un allenatore del campo sportivo l’aveva tampinata, circuita, sedotta per il suo talento, lei aveva ceduto. Era a Parigi alle paralimpiadi. Avrebbe corso. In mezzo ad altre come lei. Al pari di lei. Arrivò allo stadio, chiamarono il suo nome, si avvicinò e fece quel gesto che la ricongiunse al mondo, salutò con la mano alzata, si preparò allo sparo. Arrivò preciso e fulmineo, partì veloce, accelerò spingendo sul suo piede di metallo, sentì la molla tendersi forte e respingerla e via passo dopo passo, sempre più leggera e sempre più tesa fino alla fine di quei 15 secondi. Corse più forte del suo cuore e del suo cervello, per la prima volta da anni dimenticò di avere una gamba sola, capì che poteva volare oltre il proprio dolore, la propria rabbia e il proprio ribrezzo e a gara conclusa continuò la sua corsa in un giro di campo con la sua gamba di metallo.
Laura Romanelli
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