Disco Infermo (Santarita Sakkascia demo) – Paolo Merenda
Cosa ci fanno dei punk ad aprire un concerto di una band fusion? Niente, se non scatenare l’inferno, dove mi sa Paolo Merenda sguazza da un bel po’ di tempo. E a me questa scanzonata leggerezza, questo controvento della sua prosa, mi manda sempre in estasi, quasi in paradiso. Ops, volevo dire all’inferno.
Per noi andare a tempo o accordarci era una possibilità, non un obbligo.
Quella sera ci piazzarono ad aprire il concerto di una band fusion in una discoteca.
Eravamo punk, per cui l’importante era dar fastidio.
Nel momento del soundcheck si avvicinò al nostro cantante uno dei membri della band dicendo che la loro strumentazione era molto costosa, ma che ci avrebbero permesso di usarla durante il live se fossimo stati attenti a non far danni.
«Tranqui» commentò soltanto il nostro cantante.
I microfoni erano tutti dei costosissimi wireless, mentre la batteria sembrava un’astronave. C’era un giro di tom dagli 8 ai 18 pollici, doppia cassa e una marea di piatti.
Per me era quasi tutto inutile e fastidioso.
Cercai la posizione giusta per completare ogni mio fill rudimentale, ma finivo in continuazione per colpire il cerchio dei tom o un microfono del service.
Ad ogni botta di bacchetta sul microfono il fonico bestemmiava.
Il cantante fece cascare a terra immediatamente il costosissimo (e delicatissimo) wireless cosicché ci levarono l’uso in prestito degli altri microfoni e ci sostituirono il wireless cascato con un microfono a filo.
Quando il chitarrista pigiò l’on riuscì a emettere soltanto dei larsen tremendi da quell’amplificatore costosissimo, forse perché non andava d’accordo con la sua chitarra marcia.
Il fonico chiese al cantante un check-voce e quello rispose con un unico urlo da gallina strozzata. Inorridito il fonico ribatté dicendo di metter giù un pezzo tutti insieme, che tanto era inutile provare i livelli di ogni strumento separato.
Piazzammo di fila le nostre due hit torcibudella: Olocausto, è tutto falso e Forse sei gay. Non eravamo fasci o misogini, nutrivamo soltanto uno spiccato senso dell’umorismo, spesso non compreso.
Eravamo quindi pronti per iniziare il nostro set, che durava poco più di un quarto d’ora.
Attaccammo fra l’indifferenza generale, ma dopo poco la sala da ballo circolare si riempì di fighetti e tamarri che ci guardavano brutto.
La prima categoria era evidentemente in attesa della band fusion, mentre l’altra aveva sbagliato serata (la disco classica era dal venerdì alla domenica, il giovedì era dedicato ai live rock).
Le strobo della disco viaggiavano veloci, completamente fuori ritmo rispetto al nostro sound, quando uscì del fumo dall’odore di borotalco sul palco.
A quel punto il cantante urlò: «Non gasatemi, non sono un ebreo!»
Nessuno rise (a parte noi tre ovviamente).
Uno dei tamarri commentò: «Coglione, mio nonno era ebreo».
A metà scaletta il cantante riuscì ad affermare: «A noi piacciono i bambini»
Conquistò così anche l’odio dei fighetti, finché uno iniziò a caricarci di insulti urlando: «Fate schifo e non fate ridere!»
Gli altri fighetti si unirono al coro.
Durante l’ultima canzone il nostro cantante tentò uno stage diving prendendo la rincorsa dalla parte posteriore del palco. Inciampò però in una delle mille aste reggi piatti e fece cascare diversi elementi della batteria.
Il batterista fusion, seguito da alcuni amici tamarri, trovò così l’occasione per attaccare rissa. Volarono schiaffoni, strumenti e diosachealtro.
La serata terminò poco dopo. Il gruppo fusion non riuscì ad esibirsi perché uno di loro finì in ambulanza all’ospedale.
Noi quattro ci ritrovammo ai giardinetti per bere birra in lattina portata da casa e ridere della serata.
Ci eravamo divertiti parecchio.
Uno di noi cacciò nell’autoradio la vecchia cassetta dei Santarita Sakkascia… oh baby baby disco infermo!
Paolo Merenda
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