Francesco De Luca – Doccia di ragni
I miei trucioli, trucioli di legno e pezzi di bambù mi perseguitano come sempre, e a loro non so resistere. Che ogni volta che vedo del legno, giallo, rosso, come pare a voi, devo passarci sopra la mano, devo accarezzarlo e sentirlo pulsare; devo lavorarlo, anche se non lo so fare. Ci provo, ma ancor più mi piace; così, dopo essermici impregnato tutto, dopo aver lavorato ore e ore a contatto coi materiali per sentirmi più vivo, perché non c’è niente di più vivo e sincero della materia, assoluta, cristallina, diamantina, sola, istantanea, di solito arriva il momento della pulizia.
Anche i più grandi pazzi, i più piccoli pazzi, i pensatori, i Gesù Cristo e i Fra Diavolo, devono tutti lavarsi le mani, la faccia, le terga.
Sotto la doccia poi avviene sempre la solita magia: vedo scorrere via questi trucioli e trasformarsi in ragni. In ragni, sì, o in altre tipologie d’insetti e animali. Quattro zampe, otto zampe, sedici zampe, quante zampe volete, che corrono e slittano, scivolano lungo la parete bombata, curvilinea della vasca.
Così, con il passare del tempo, ho iniziato ad aver timore del box doccia o della vasca, dove tutto diviene possibile: la mia lancia del passato, la mia astronave per il tempo-spazio, per andare in luoghi dove la verità combacia con l’immaginazione o con il ricordo, il ricordo di un altro quando e di un altro dove, di un altro come. Apparenze.
Ogni volta, non appena chiudo la tenda, ecco loro appaiono. Sempre loro. Dal soffitto da sotto i piedi, da tutt’attorno e da dentro, si muovono largamente e sottopelle per poi uscire da sotto lo sterno ed esplodere in una miriade di movimenti che poi raggiungono le sfere più alte del visibile oltre il soffito, soprattutto dietro agli angoli, là dove le direzioni diventano possibili.
Ragni fuori e ragno io, dentro. Poi compare nella mente quello strano venditore di mantou, a Tianjin. Quando ero là inseguivo i sogni e non ero nessuno se non l’ombra di un’aurea vagante e al contempo l’ombra di quell’uomo, solo, che aveva vissuto una vita intera aspettando che succedesse qualcosa a portarlo via, senza nulla, ma proprio nulla se non la propria capacità sofferenza di afferrare la materia, lavorarla, per necessità o passione, e farne pane.
Quell’uomo era l’uomo che sorrideva sempre, un po’ timido, un po’ diffidente, che mi guardava con l’occhio pieno di una luce buia, filtrata dai suoi occhi marroni scuro, in cui vedevo un pensiero solo: il desiderio di scappare e di vedere tutto quello che sapeva già sarebbe stato impossibile vedere e ottenere per lui e per la sua famiglia: la libertà. Ma non la libertà di circolare, una libertà mentale che travalichi le costrizioni ideogrammatico culturali di una Cina schiacciata dal peso dei millenni e della storia comunistico-capitalista, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono melma alla deriva nei canali. Così per lui, vendere un po’ di pane a un forestiero infiltratosi in un vicolo di periferia di una città che forse non doveva neanche esistere era certo una cosa a dir poco un poco inusuale, come un raggio di speranza che forse le cose stavano per cambiare.
Mi chiamo come mi chiamo, ma il mio nome non è importante, perché ogni nome è al contempo anche un non nome e racchiude tutto quello che non si è negato dall’affermazione del sé. E dico questo perché mi ha dato esistenza solo tutto ciò che in apparenza era fuori da me, che poteva e può raggiungere la mia mente attraverso il pensiero e attraverso quel vettore ridicolo e fondante che unisce l’occhio all’oggetto. Anche solo aver visto vendere quel pane in quel vicolo di periferia di questa storia inusuale e micragnosa a Tianjin, anche solo rivivere quel momento nascosto e vibrante della mia memoria fa in me scorrere una lacrima di bellezza e nostalgia, e mi dico che ne è valsa la pena, ne è valsa la pena soffrire per vedere quello che non si può scoprire.
Dopo, oltre la via, c’era un mondo gigantesco che era meno forte, sembrava meno rude e bambinescamente assassino se l’osservavo assaporando quel pane soffice e bianco come neve, magari con un po’ di doufuru sopra, che a descriverlo potrei dire assomigli a del semplice doufu però andato a male, in putrescenza, e per questo friccicante come quelle bustine di gomma che da bambini mettevamo in bocca e schioccavano friccicando come piccoli fuochi artificiali, per poche lire.
Se si proseguiva oltre il negozio, andando verso sinistra, oltre il lavasecco, che passavo sempre come uno straniero pazzo, perché cercavo di guardare dentro come un uomo dei boschi che non ha mai visto lavatrici e donne a lavar panni, guardavo a gonnelle e gonnelline, ai mattoni rossi e ai fiori nei vari interstizi del muro e non so neanche io perché. Me ne tornavo così, felice, col mio mantou e il mio toufu, di quelli gialli, fatti alla maniera dei Dongbeiren, abitanti del Nord-Est, quelli più duri e più abituati al gelo della vita, e sembrava tutto impossibilmente possibile, anche se poi alla fine nulla sarebbe mai cambiato.
Eppure eccomi qui, non più su Anshan Xidao, il viale all’incrocio dove avevo detto che il mondo cominciava ad essere più grande, no, sono qui, nel mio box doccia, a combattere con i ragni della mente, mentre mi trasformo anch’io.
Non è certo una sensazione piacevole ve lo garantisco, per prima cosa perché guardandoti il petto ti trovi il torace inferiore con le zampe dai coxe ai metatarsi e i peli e il muoversi forsennato delle zampe, su e giù, ti fa girare di testa e vomitare, ma non puoi far nulla ormai sei quasi un ragno; ed è un accoppiamento di ragno e ragno ogni volta che andiamo a letto con qualcuno o con qualcuna, ma non c’è verso di veder diversa questa realtà ragnesca se non entrando all’interno del mio box doccia e purificarsi.
Il mio fantabagno, con le mattonelle rosse a pallini bianchi, dove tutto diviene possibile.
Allora vi do un consiglio: venite da me a docciarvi, venite a casa mia, vi ritroverete di fronte all’evidenza del nostro esser insetti e di aver creduto di esser stati umani in un mondo di giustizia e verità solo immaginari.
Francesco De Luca
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