Gianfranco Benedettini – Dumas Tofani, un minatore
Dumas Tofani era un minatore che aveva lavorato nelle miniere di Campiglia Marittima, Gavorrano, Ribolla e, da ultimo, a Fenice Capanne di Massa Marittima, la miniera “europea”.
Era disceso nelle profondità della terra maremmana e non si lamentava anche se la silicosi gli aveva devastato i polmoni. La mente, però, era rimasta lucida, attenta e curiosa.
Era uno spirito libero, Dumas Tofani. Dumas… “Sì, il mi’ babbo aveva letto i libri di Dumas padre, ne era rimasto avvinto… conosceva a memoria molte frasi…”. Nel dirlo, mi indicava sei libri ben ordinati nella sua “biblioteca”. “Quando muoio te li lascio”, mi disse un giorno.
Cantava nel gruppo dei “maggerini”, quelli che girano la campagna durante il Primo Maggio che, lui, considerava l’ “unica vera festa, anche più del 2 Giugno, la festa della Repubblica”.
Cantava l’ottava ma non sapeva costruirla. “Sai, è difficile mettere insieme i “piedi” dell’ottava, far combaciare le rime, è troppo tecnica e a me piace la naturalezza dei sentimenti”.
Poi, mi sciorinava otto numeri quasi annunciasse una nuova tattica calcistica: 1/3/5 – 2/4/6 – 7/8 che, spiegava subito dopo, sono le rime dell’ottava; la prima deve far rima con la terza e la quinta, la seconda con la quarta e la sesta, la settima con l’ottava. Troppo difficile per lui che, però, imparava a memoria quelle costruite dai poeti suoi amici e le cantava con la sua bella voce.
“Io canto perché ho il bernesco, sono sfacciato, non mi vergogno; canto alla Benigni che, agli esordi, ha cantato le ottave”.
Dumas non aveva la “genìa” di chi riesce a mettere insieme l’ottava ma, sul lavoro, dicono che fosse un “genio”. Mentre raccontava veniva assalito da violenti colpi di tosse.
“Dumas, se non ti curi va a finire che ti si porta alle “coccole” ” gli dicevo.
Le “coccole” sono il frutto dei cipressi che si alzano nel cimitero del paese.
Me le aveva chiamate proprio lui e gli piaceva sentirlo ripetere, specialmente da me.
Nonostante fossero passati molti anni da quel 4 ottobre 1976 quando fu licenziato dalla Miniera, portava ancora in una tasca della giacchetta la lettera di licenziamento. La chiusura della Miniera di Campiglia, non gli era ancora andata giù. “Oggi non posseggo più nulla, mi sono battuto per i miei ideali, ho pagato di tasca e ho l’immenso orgoglio di essere povero. Non sono più nemmeno un minatore, sono solo un pensionato”.
Ricordava volentieri il lavoro in miniera, le lotte sindacali, le discese e le risalite nelle gabbie, anche insieme ai ciuchi che, una volta discesi, non risalivano più.
“In fondo – diceva – la differenza fra noi e loro stava proprio qui”.
Avvertivo il suo risentimento. Sentiva di essere stato tradito. Le sue accuse diventavano circostanziate e prendevano toni pesanti nei confronti dei padroni, dei compagni, del governo. Non accettava la Cassa Integrazione Guadagni che i sindacalisti chiamavano “Ciggii”, parola che “Di Vittorio non avrebbe mai usato per parlare ai lavoratori!”
Di Vittorio… solo il suo nome gli evocava la lotta. “L’ho sentito sai – mi diceva – venne a Ribolla nel 1954, nei giorni di quella sciagura e ci parlò… molti piangevano…dieci anni prima, i nazifascisti avevano preso settantasette lavoratori della Niccioleta e li avevano fucilati a Castelnuovo Val di Cecina” . Per quei fatti “Ribolla salì alla ribalta nazionale, bella roba, sì!…Ne parlarono tutti i giornali…io l’appresi dall’Unità…inforcai la bicicletta e corsi a Ribolla. Pensare che ci sono tornato dopo qualche anno, in quelle gallerie…allora c’era più solidarietà fra di noi”.
Dentro di sé, Dumas, avversava l’avvento della macchina e l’impetuoso sviluppo della civiltà industriale. In due secoli sono state prodotte innovazioni davvero eversive e radicali. Di conseguenza, l’uomo moderno non nasce più in un ambiente naturale, come accadeva per le generazioni precedenti, ma vede la luce e compie le sue esperienze in un ambiente tecnico che gli è ormai congeniale.
Così, i limiti del suo orizzonte non sono più segnati dalla lontana linea dei monti, ma dagli alti comignoli delle fabbriche; lo stormire delle foglie e il succedersi degli astri nel firmamento sarebbero stati rispettivamente sostituiti dal ronzio dei motori e dalla illuminazione artificiale.
Le possibilità di rimanere a contatto con la natura si sarebbero mantenute pressoché integre in poche professioni, tra le quali, tuttavia, non è consentito o, perlomeno, non sarà possibile di qui a qualche tempo includere i mestieri dei campi e le pratiche contadine.
Anche in quest’ ultimo settore, infatti, il crescente processo di meccanizzazione, ha operato effetti presso a poco analoghi a quanto è accaduto altrove.
“Calma giovanotto – diceva Dumas – l’eccezione c’è, pensaci”.
Sì, l’eccezione di maggior rilievo al generale processo in corso, sarebbe costituita dalla attività dispiegata nelle miniere ad opera degli uomini calati nei pozzi bui e profondi per estrarre il prezioso minerale. La fatica del minatore è stata oggetto di frequenti ricerche ed inchieste allo scopo di portare luce sulla psicologia degli addetti a quella singolare e avventurosa professione. “Professione? Inchieste psicologiche?” Dumas storceva la bocca per esprimere i suoi dubbi.
“Già una volta, alla Montecatini, condussero un’inchiesta fra noi lavoratori e io risposi il contrario di quel che loro si attendevano… bella pensata, la psicologia per un minatore!”
Eppure, proprio in quegli anni, prendeva corpo un rinnovato interesse per il settore minerario in relazione con i numerosi incidenti occorsi in questa o quell’altra località. Gli incidenti in miniera non sono, infatti, malanno esclusivo di un Paese a preferenza di un altro.
Così, se l’Italia inscrive al suo passivo la sciagura di Ribolla, nel Belgio, secondo una statistica degli Anni Cinquanta, ogni tre giorni di lavoro morivano due minatori e, ad ogni 150.000 tonnellate di carbone estratto, un lavoratore perdeva la vita.
“Cosa c’entra la psicologia con questi dati, io non lo capisco” diceva mestamente.
Ora, alcuni vecchi compagni di lavoro lo avevano raggiunto. Sorridevano, si chiamavano per soprannomi e si davano delle pacche sulle spalle o sulle braccia.
“Gli incidenti potrebbero essere eliminati o ridotti in notevole misura – dicevano in coro – soltanto se venissero adottati i dispositivi e i rimedi inventati dalla tecnica moderna … “.
Le cronache del tempo sono ripiene di conferenze o di convegni organizzati dall’Enpi (Ente nazionale prevenzione infortuni) o dall’Inail (Istituto nazionale assistenza infortuni sul lavoro), per prospettare linee maestre secondo cui procedere. Tuttavia, da un punto di vista generale è lecito affermare che, a differenza di quanto è accaduto altrove, gli effetti della rivoluzione industriale sono stati avvertiti in maniera insufficiente e inadeguata nel lavoro svolto in miniera.
Mentre la parcellizzazione dell’atto produttivo e la lavorazione a catena, in vigore nei grandi stabilimenti moderni, hanno modificato radicalmente i modi e i processi produttivi, la miniera rappresenta, in un mondo trasformato dalla tecnica industriale, un evidente anacronismo e conserva tuttora molte fra le caratteristiche peculiari dell’ambiente naturale, pressoché ovunque scomparso. Dumas, che aveva seguito il mio ragionamento, diceva: “Guarda che non siamo più ai tempi descritti da Zola in Germinal perché le innovazioni tecniche hanno riguardato esclusivamente il trasporto del materiale, cioè un altro mezzo per far guadagnare il padrone”.
Di nuovo, l’acutezza di Dumas aveva colpito nel segno.
Infatti, i vagoncini colmi di minerale non sono più, in numerose occasioni, sospinti a forza di braccia o di spalle, oppure affidati alla lenta marcia degli animali; ma, ove si tolga questa eccezione, il martello pneumatico, che ha sostituito il piccone e, in generale, le altre macchine utensili ad aria compressa, arreca senza dubbio un notevole beneficio a coloro che sono impegnati nell’opera di scavo delle gallerie e che evitano, in tal modo, le troppo dense e nocive esalazioni di polvere prodotte dalla roccia aggredita e manomessa dalla fatica dell’uomo.
Il medesimo martello pneumatico, però, allorché viene impiegato in un’ altra fase del processo produttivo minerario, cioè per l’abbattimento del minerale, se fa conseguire cospicui vantaggi in ordine al rendimento e alla diminuzione del prezzo di costo, d’altro lato minaccia da vicino la salute dei lavoratori, a causa della densa polvere sospesa per lungo tempo nell’aria.
Quasi a confermare queste parole giungeva puntuale un attacco di tosse di uno dei minatori presenti. Ma, senza diffonderci oltre nell’esame particolareggiato degli accorgimenti e dei mezzi strumentali adoperati nelle industrie estrattive, le conclusioni che si possono ricavare sono evidenti: in un mondo profondamente trasformato, in conseguenza della rivoluzione industriale, l’estrazione del minerale è una forma di attività che unisce la grandezza del lavoro artigianale – sia pure nelle sue manifestazioni più grossolane – alla miseria e alla schiavitù dei lavori forzati.
Proprio da qui hanno origine le osservazioni e le interessanti scoperte da parte della psicologia moderna contrariamente a quanto accade nelle altre branche produttive dove le macchine hanno liberato l’uomo dai lavori più faticosi e l’ obiettivo consiste nel ridurre vieppiù, attraverso nuovi ritrovati, il dispendio di energie muscolari e l’impegno fisico da parte di ciascuno di noi.
Una simile attività presuppone, invece, che il fattore decisivo sia costituito dalla forza-lavoro.
Cercavo di convincere Dumas con quest’ultimo ragionamento e mi accorsi, che stavolta, egli rimaneva in silenzio. “Ci penso su, scusa”.
Che razza d’uomo era, Dumas! Una volta mi aveva raccontato di essere stato allattato da una vicina di casa perché sua mamma non aveva latte. “Il mi’ babbo mi ci portò perché urlavo come un ossesso. Quella donna aveva partorito una bimba, la mia sorella di latte. Di lei ricordo soltanto che levava con due dita le patate che friggevano nella padella e se le metteva in bocca. Non capisco come faceva a non bruciarsi le dita e il palato e, siccome a me questo non riusciva, io l’ammiravo. Però debbo confessare che ammiravo molto di più i fianchi possenti di quella donna che mi aveva dato il suo latte…Ma questo succedeva parecchi anni dopo”.
Dumas apprezzava molto la bellezza delle donne.
I suoi canti erano quasi sempre dedicati a loro e alla politica, naturalmente.
Un giorno gli chiesi se i suoi genitori fossero così pieni di estro o godessero del “bernesco” che lui si ritrovava. La sua spiegazione mi sorprese, come al solito.
“Tutto è dipeso dal latte della balia, perché con esso quella donna mi ha trasmesso quel che di misterioso c’era nella sua personalità, intendo della balia”. Un breve attimo per riprendere fiato, poi, dopo essersi girato a destra e a sinistra, quasi per non voler far sentire ad altri quel che stava per dirmi, con occhi, all’improvviso, diventati più gai del solito, continuava: “Sono sicuro che
quel tanto di “sgarallino”, come dicono i nostri vecchi ai ragazzi che non stanno mai fermi, che una ne pensano e una ne fanno, il gusto per l’avventura rischiosa antisociale che è in me, mi viene dalla mia balia. Mio babbo raccontava che era la moglie di un contadino che faceva il brigante a tempo perso o viceversa”. Sarà, mi dicevo. Subito, però, mi ricordavo dell’ascendente che godeva su chi gli stava intorno. Del resto, in un certo senso, anch’io lo subivo ed ero affascinato dal suo modo di parlare dei fatti della propria vita. In un mondo in cui le generazioni industriali sotto l’aspetto fisico vanno progressivamente depauperandosi, il minatore appartiene alla famiglia dei lavoratori florida in altra epoca, allorché sul mercato la mano d’opera, a causa dello scarso sviluppo tecnico, vendeva esclusivamente, o quasi, forza lavoro.
In altre parole, il successo della attività estrattiva è fondata in massima parte sulla gagliardia delle braccia e sulla robustezza dei toraci. ” Ma chi vuoi prendere in giro – urlavano Dumas e compagni – braccia forzute e toraci robusti, no caro mio, tosse e silicosi, ecco che cosa ci ha lasciato il lavoro della miniera!” Ma non mi facevo intimorire dal coro di protesta cercando di portarli sul filo di un ragionamento logico. “Da quanto vi ho detto – continuavo – ne deriva, in contropartita che, se nelle altre attività, a causa del principio della divisione del lavoro, i produttori prendono parte ad uno soltanto tra i numerosi atti nei quali il processo produttivo è stato scomposto, con il risultato che la loro personalità è mortificata e compromessa dopo l’ introduzione della “catena” ha valore, insomma, non tanto il singolo, quanto la squadra.
Il minatore è forse in questa nostra epoca moderna uno tra i pochi individualisti, accanto ai poeti, e, in generale, ai creatori”.
Dal loro silenzio mi accorgevo che stavo toccando i tasti giusti. A ben pensarci, la sua fatica è completamente sciolta dalla macchina, la quale, se, da una parte, ha concorso ad affrettare la liberazione dell’uomo, per altro verso implica una nuovissima forma di schiavitù, in quanto occorre ubbidire ai suoi ritmi, procedere in armonia con i suoi complessi congegni.
Cercavo di far “vedere” a chi mi ascoltava, come il minatore fosse solo con la sua fatica, convinto che la buona riuscita dell’impresa fosse affidata alla sua iniziativa, non preoccupato dall’occhiuto controllo dei capireparto, cui debbono sottostare i suoi compagni di fabbrica o di officina.
Nella notte sempiterna dei pozzi e delle gallerie la altrui sorveglianza ha, dopo tutto, scarse possibilità di successo. Da qui discende, ancora, lo spirito di fierezza e di indipendenza, cui è costantemente informato il minatore: la tradizione di una fatica, svolta in condizioni eccezionali, in un clima di continuo pericolo, lo hanno reso conscio del suo valore e della sua importanza
sociale. Nessuna meraviglia, quindi, se i minatori siano provvisti in sommo grado di coscienza sindacale e se, dappertutto, hanno costituito o costituiscano l’avanguardia, l’elemento dinamico della classe operaia.
Essi non possono accettare un ordine – naturale e sociale – nel quale i loro sforzi non siano adeguatamente ricompensati e le loro vite convenientemente tutelate e, d’altro lato, risultano temprati, per istinto e per formazione, alla lotta e al combattimento.
La loro condotta e i loro atteggiamenti rappresentano, insomma, per la psicologia la residua testimonianza, in un mondo diversamente orientato, di una mentalità in via di progressiva eliminazione; la loro fatica ricorda assai da vicino la nobiltà degli antichi uomini e degli antichi miti fondati su immagini prometeiche di individui in lotta con gli elementi ostili, con la natura. Pertanto, essi – nei confronti dei loro compagni al tornio o all’aratro – sono più accosti al cuore della vita, capaci di avvertirne i grandi misteri.
Mentre così dicevo, tenevo d’occhio Dumas e lo vedevo mangiucchiare, di tanto in tanto, un pezzetto di pane accompagnandolo da un tocco di formaggio pecorino tagliato col coltellino che portava sempre con sé.
Mangiava in silenzio e mi seguiva in silenzio. Ora scorgevo nei suoi occhi una luce nuova, rivelatrice di qualcosa che lo aveva colpito profondamente ma che aveva tenuto dentro, quasi si peritasse a parlarne. I miei riferimenti al cuore e ai grandi misteri, però, lo avevano colpito.
Allora, chiese silenzio. “Che nessuno mangi o beva, vi voglio raccontare quel che mi è capitato nella miniera del Temperino”. Da quelle parti si trova la chiesetta della Madonna di Fucinaia e, già il nome la dice lunga su quella zona così ricca di miniere.
“Voi sapete che i minatori della mia squadra erano tutti comunisti e atei…non c’era posto per altri…la Direzione ci aveva messo insieme e ci faceva lavorare in una galleria dove le norme elementari di sicurezza non erano rispettate. Ebbene, ogni volta che uscivamo dalla gabbia
Che, alla fine della fatica quotidiana , ci riportava alla luce del giorno, un compagno non poteva fare a meno di esclamare: ” Bisogna che un Dio esista; altrimenti non potrei spiegarmi come ogni giorno riusciamo a cavarcela e a sortirne vivi!”
Anche questa volta l’ultima parola era stata di Dumas Tofani, il minatore.
Gianfranco Benedettini, 26 novembre 2018
Commenti recenti