Gioia Conforti – La favella
“Quella è una sottona, te lo dico io!” diceva mio fratello Nicola al cellulare. “Te la limoni in un baleno!”
Parlava con quello spilungone del suo amico Alfredo, che tutti nella compagnia chiamavano Alfred. Doveva essere di moda anglicizzare i nomi tra gli adolescenti, anche se con me non lo facevano, e m’avevano sempre chiamato Darius, e vallo a capire il perché! Gli sarò sembrato vecchio. Certo, a quell’età, quattordici anni di differenza sono un secolo. Ma io mi ero messo in pari. Cercavo d’imparare i vocaboli del loro dizionario, anche se era difficile stare al passo.
Qualche tempo fa, ad esempio, Nicola era venuto da me mentre leggevo il giornale, e mi guardava e mi guardava, come se si aspettasse qualcosa che ero tenuto a dargli, o a dirgli. Ma non era il suo compleanno e non avevamo fatto nessuna scommessa. Che poi le vinco tutte, quindi sarebbe stato uguale.
Voltavo le pagine del quotidiano con disattenzione, ogni tanto mi muovevo sulla sedia, come a spronarlo a dire qualche cosa. Ma lui, niente.
Sentivo il suo sguardo addosso, fin quando, dopo un’ultima esitazione, lo sentii uscire dalla stanza. Allora alzai la faccia dal giornale, e chi ti vedo di ritorno? Nicola, col suo passo strascicato, che si ferma a un metro da me e mi fissa. A quel punto non potevo più evitare: “Che c’è Nicola?” gli chiesi, chiudendo il quotidiano.
“Oh… Si… Beh…” iniziò a blaterare, strusciandosi quella manona che si ritrova sulla nuca.
“Mi alzi dieci euro per favore?” si decise a dire infine.
Io già m’immaginavo con la banconota tenuta per aria, svolazzante…
“Volevo dire: mi puoi prestare un decino?”
“Si, avevo capito.” mentii, sentendomi comunque un po’ offeso. “A che ti servono?” gli chiesi, calandomi nei panni del fratello maggiore. “Mica dovrai comprarci le siga?”
Dovevo chiederlo, anche se non avrei voluto. Nonostante nostro padre non ci fosse mai e la mamma abitasse ormai lontano, non volevo elevarmi al ruolo supremo di genitore. Eravamo amici, prima di tutto, anche se non lo chiamavo Nik.
“Te l’ho detto che non fumo, Da’! Sono solo scazzato perché stasera gli altri si beccano in piazza e io devo sempre scroccare.”
“Va bene…”
Mi aveva convinto. Glielo leggevo negli occhi che era sincero. E poi ero riuscito a tradurre tutto quel discorso rappato che m’aveva sciorinato, quindi ero contento.
Presi il portafoglio e gli allungai venti euro. Lui mi guardò raggiante, poi abbassò lo sguardo, indeciso ancora sul parlare: “Comunque siga fa vecchio!” disse scuotendo un po’ la testa.
Da buon vecchio mi buttai sulla poltrona di velluto, una di quelle belle grosse, che quando ti ci siedi ti risucchiano. Me ne stavo così sprofondato nell’abbraccio morbido della mia poltrona mangiapersone, a riflettere sulle parole nuove.
Quelle che andavano di moda in quel periodo le conoscevo tutte. O meglio, quasi tutte. Ne sentivo sempre di diverse, mentre alcune erano già passate, vecchie, obsolete… Erano articoli con la scadenza breve, come la carne, e il latte fresco.
Solo la sera prima Alfred (scusate, ma a forza di sentirlo dire anche io non riesco più a chiamarlo col suo nome per intero) era rimasto a cena da noi. Avevamo ordinato la pizza, perché Alfred mangia praticamente solo quella, e non ho capito ancora come faccia ad essere così allampanato. “Metabolismo adolescenziale veloce!” m’ha detto un giorno. Io non ho mai avuto questo beneficio eppure, giuro, anch’io ho avuto la sua età un tempo.
Comunque, eravamo tutti e tre seduti a tavola e Alfred puntava la mia birra. Col cavolo che te la faccio bere, pensai. Poi lo guardai con fare imperscrutabile e lui, con quella sorta di sensore che hanno tutti i ragazzi di quell’età, spostò la sua attenzione su Nicola, e via di discorsi fitti fitti.
“Che bomber! L’altra sera tutto acchittato, hashtag da paura… Che pro! Ti notifico che il bordello è successo dopo che l’hai friendzonata. Ma poi dove sei stato, che non ci siamo ribeccati, bro?”
Mi fumavano le orecchie.
Mettendo insieme un po’ di pezzi stavo quasi per riuscire a decifrare quel discorso, quando Alfred si voltò verso di me chiedendo: “C’è del beverage?” e mosse con la mano il suo bicchiere vuoto.
Voleva qualcosa da bere, ma col cavolo che gli davo la mia birra.
Mi alzai e tirai fuori dal frigo la bottiglia da un litro e mezzo di cola ghiacciata, appositamente preparata per la pizza.
“Si sboccia!” rise Alfred, probabilmente con quell’ironia nascosta che difficilmente noto, dato che tutto quello che gli esce dalla bocca ne è permeato.
“Si sboccia!” risposi allegro, riempiendo i bicchieri ai ragazzi.
“Grande bro!” esclamò, iniziando a trangugiare la cola.
Rimasi a fissarlo mentre beveva tutto il liquido.
Dovevo avere un’espressione di estremo stupore stampata sulla faccia quando, un secondo dopo, mi porse di nuovo il bicchiere per farselo riempire.
“Good vibes.” disse.
“Good vibes.” ripetei, immaginando che tutto quello stile che ostentava si sarebbe infranto in un rutto poderoso.
Ricordo di avere anche contato. Tre. Due. Uno. Ma in quel momento suonarono alla porta. Era il ragazzo delle pizze.
Tornai in cucina con i cartoni.
Scoppiò un boato di felicità.
“Salame e gorgonzola è mia!”
“Io würstel.”
Dicevano quei due, allungando le mani come polpi. Gli passai i cartoni e mi sedetti.
“È buona un botto!” disse Alfred, mentre si ingozzava.
“Pleonastico!” disse Nicola.
“Pleonastico?” chiesi, curioso.
Nicola si fece serio e posò la fetta di pizza nel piatto: “Si, pleonastico. Dal greco antico: pleonasmós. Eccessivo. Superfluo. Che non lo sapevi?” mi chiese guardandomi con soddisfazione. “Cioè, si sa che la pizza di Gigi è troppo buona.”
“Pleonastico, bro.” riuscì a dire Alfred con la bocca tutta piena.
“Non lo conoscevo…” dissi per lasciargli la soddisfazione.
Poi un pensiero mi passò per la testa, veloce come un lampo: in qualche giorno si sarebbe diffusa la moda. Tutti avrebbero iniziato a dire pleonastico. Quel vestito è troppo bello! Pleonastico!
Hai visto i capelli di Kitty? Pleonastico!
Inorridivo al pensiero che si potessero spingere oltre, e già mi figuravo obbrobri del tipo: “Ti sei depilata i peli pleonastici?”
Finii la mia pizza e lasciai i ragazzi a pulire. D’altronde avevo pagato tutto io e questi erano i patti.
Andai in salotto, cercando conforto tra le braccia della poltrona.
Iniziai ad immaginare tutti quei lungoni biondi usare come slang parole forbite, decontestualizzandole in mille modi.
Ma poi dalla cucina arrivò una frase intera composta solo con i rutti, e mi tranquillizzai. Ero tanto rilassato che credo di essermi addormentato…
Che accidente bislacco! Ecco, come volevasi dimostrare! Devo favellare. Ne ho urgenza.
Come ogni dì mi sono destato, e mi sono approssimato al lavabo, dove mi sono terso il volto. Tutto appariva normale, tale e quale gli altri giorni. Ma sentivo in me qualcosa di novo, di strambo. Mi sono riflesso nello specchio e ancora vedevo la mia solita faccia, coi due occhi atri al loro posto, i supercili folti e quel naso grifagno che sempre m’ha qualificato. Niente si prospettava fuori loco. Forse quel piccolo neo sulla ganascia, ben posato sull’orlo tra il volto e il collo. Che in trent’anni non c’avessi mai badato? Era possibile, dunque. Tanto valeva non obnubilarsi e forse quell’astruso sentore sarebbe fuggito via col daffare.
Pertanto mi sono abbigliato per recarmi a colezione dove ho trovato quello smargiasso di mio fratello seduto al desco che manucava allegramente un culaccino di pane e marmellata d’ananasso. E allora è parso lapalissiano che qualcosa non andava! Purtroppo non riesco a contenermi. E così è stato che…
“Buongiorno Nicola.” gli ho detto, sedendomi sulla seggiola. “Che sguardo sagittabondo che hai stamane!”
Quello m’ha fissato con tanto d’occhi come se lo avessi vituperato.
“Intendo dire… che forse hai conosciuto una sgarzigliona…” ho detto per rimediare.
“Ma come parli, Da’?” ha replicato il fratellino, resecando il mio nome come suo costume.
E che potevo dirgli. Aveva di tutte le ragioni, tanto che anch’io udendomi parlare son trasecolato! La mia loquela s’era alterata.
“Favello strambo…” ho risposto.
“Favello?” ha riso lui con malizia.
“Mi dileggi? Se la mia lingua metamorfa ogni mio verbo, mica posso essere colpato… Che granciporro!” gli ho detto, e pensando di sgravar la situazione ho inasprito il patimento.
Che poi, ha un bel da fare lo smargiasso il fratellino, che il primo a favellare strambo è proprio lui.
Allora quel segaligno di un Nicola ha cominciato uno stoltiloquio che non ho il core di spifferare. E non sapendo più che fare gli ho contato una panzana. Quello se l’è bevuta, e con il consueto sorrisetto s’è accommiato.
“Ci si becca.” ha proclamato prima di lasciarmi abbandonato nel locale.
Divenuto solo, mi son detto: proviamo a metter per iscritto i pensamenti, vattelapesca che questa fattura funga solo nel parlare. Dunque, eccomi quivi, a pronunciar parole ormai vetuste, che m’auspico quando mi ridesterò domani di rammentare.
Gioia Conforti
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