Giorgio Vanagolli – Dylan Thomas e Luigi Berti tra Firenze e l’Isola D’Elba
“La birra fredda è Dio in bottiglia”, scriveva Dylan Thomas il 31 agosto 1947, da Rio Marina, nell’Isola d’Elba, all’amica Margaret Taylor, abbrustolito da un sole inimmaginabile nella sua pallida Swansea. E ne beveva a litri, che alternava, però, irragionevolmente, con litri di vino, sicché aveva voglia a implorare “se mai, per un secondo, un po’ di vento” , abbisognandogli come minimo un gagliardo maestrale, invece dell’inutile “sbruffo sfrigolante lento come una lumaca” che arrivava nella locanda dov’era sceso con alcuni familiari. “Sbruffo sfrigolante”, cioè a dire scirocco, che di Rio Marina è la traversìa, con il greco, il greco-levante, il levante e lo scirocco-levante: tutti venti cattivi e, per di più, appiccicosi e uggiosi, d’estate. Per il suo refrigerio, tuttavia, il poeta gallese poteva contare fortunatamente su un altro dio: il mare. E’ vero che non sapeva stare a galla, ma si era trovato una specie di tinozza al centro di una corolla di scogli, nella quale sedeva, facendo emergere dall’acqua solo il capo e una mano, con la quale governava la cicca che teneva sempre accesa tra le labbra. A Rio Marina, ustionato, ma coinvolto emotivamente ogni giorno di più negli umori di un’umanità singolare fatta di minatori che campavano cavando ferro da un’antica miniera e di marinai, Thomas non era arrivato da Swansea, bensì da Firenze. E non seguendo un suo impulso, ma a rimorchio di Luigi Berti che, nato a Rio Marina, era emigrato giovanissimo, nel 1926, a Firenze, dove si era ben acclimatato, trovandovi quel respiro culturale che inutilmente aveva cercato all’Elba. Allievo di Emilio Cecchi, presto ne aveva seguito le orme e, come lui, era diventato un americanista, traduttore di nomi importanti della letteratura d’oltre oceano, quali Melville, Poe, Hawthorne, Twain, Thackeray, O’Neill, e un critico acuto, autore di saggi ponderosi. Accanto a Renato Poggioli, con il quale aveva fondato, nel 1946, “Inventario”, una bella rivista internazionale con una doppia redazione, in riva all’Arno e a Providence, negli States. Di Dylan e Luigi, a Firenze, le cronache raccontano fatti memorabili, dal momento che nemmeno l’elbano disdegnava il fiasco e che, se l’uno non aveva mai una lira in tasca, l’altro non ne contava mezza. C’erano tutte le condizioni per un’amicizia granitica. Per di più Dylan non sapeva una parola d’italiano, né di nessun’altra lingua conosciuta, a parte la propria, e Luigi non parlava inglese (proprio così!), sicché la comunicazione era senza mediazioni; si intuivano rabdomanticamente, fino a piangere ascoltando l’uno le poesie dell’altro e viceversa. Certo, il vino aiutava. Comunque Luigi era l’unico che riuscisse a far intendere ragione a Dylan, quando la prendeva storta: fu a lui, extrema ratio, che ricorsero, una sera, da Casa Tanzi, il tempio più esclusivo della cultura fiorentina, quando il gallese, accolto piuttosto algidamente da quegli accademici (vecchi e nuovi) e urtato dagli obblighi di un’etichetta non gradita, cominciò, berciando, a strapparsi gli abiti di dosso, emulo di Orlando nel Furioso.
Il soggiorno di Dylan a Rio Marina durò un mese. Un attimo e insieme un’eternità, se si considera che la sua vena poetica si espresse tra le case incrostate di salmastro e di minerale con i versi forse più significativi della celebre In country sleep, destinata ad apparire su “Inventario” nel ’49. Ma soprattutto se si pensa che Dylan adottò il paese, nella sua aura semplice, quasi primitiva e quindi naturalmente poetica. E ne fu adottato: andava per vicoli e ridevano di lui, che indossava sempre un camicione rosa svolazzante su un paio di pantaloni verdi, in capo un impossibile berretto che sembrava una mitria vescovile; ma ridevano come si ride in Toscana di un amico strambo – dalle parti di un umorismoche ha del pirandelliano, senza essergli nemmeno lontano parente: una cosa che altrove nessuno può comprendere – mentre gli offrivano ora un assaggio di cacciucco ora un gotto di bianco, nel miracolo amplificato di un’intesa senza parole. Luigi ne godeva e, per dimostrarlo, buttava giù versi, anche lui, a tutto spiano: nacque così Isola e deserto, che leggiamo su “Inventario”, accanto a In country sleep. Era una vittoria della poesia sul mondo, anche su quello di Casa Tanzi, cioè a dire delle Giubbe Rosse e del Viesseux, troppo intellettualmente stracittadino per penetrare i prodigi del marginale. E fu un peccato che una notte non ci fosse, appunto, l’accademia (vecchia e nuova), a spiare Dylan che, in un vicinato, sotto una pergola, col suo viso di giovane bacco, ubriaco come di norma, sostenuto da Luigi, non meno ubriaco di lui, declamava In country sleep, circondato da una ressa immobile di minatori e di marinai, con le loro donne e i loro bimbi, ciascuno rapito a modo suo da una rapsodia di cui non capiva un accidente: iperbole del miracolo. Alla quale dobbiamo sperare tutti che a Rio Marina dedichino un’edicola per pellegrinaggi di poeti.
Gianfranco Vanagolli
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