Gordiano Lupi – Campiglia Marittima
Da quel cantuccio dove s’arrocca una collina maremmana, vedo la piana di Venturina, tutta distesa e baciata dal sole, in mezzo ai campi, in un mattutino che il sole indora. Dolce borgo di storia antica, un tempo Campilia, medioevo ormai lontano, feudo d’un monastero, di conte Gherardo, inerpicato sul Monte Calvi. E quella Rocca di San Silvestro dei Gheradesca, con le miniere di rame e piombo, le porte aperte sul mare, al sole che batte, a tramontana. Il monastero di San Giustiniano, antico padrone piombinese, approdo per Papa Innocenzo che transitava, quindi i pisani padron della Rocca, gli Aragonesi contro Piombino, i Fiorentini, la peste che uccide, il morbo assassino. Ed ecco i Medici, quindi i Lorena, il Granducato, il fascismo s’inventa Livorno e la provincia, regalo di quel gerarca di nome Ciano. San Vincenzo che ti saluta, se ne va solo – nel dopoguerra – ad aprire bagni sul mare per un turismo da sviluppare. Campiglia resta, levriero rampante al palazzo pretorio, pitture di Carlo Guarnieri, miniera del Temperino, Rocca che osserva di buon mattino le tre porte della città, le piccole chiese, il tempio nel cimitero, proprio accanto al campo di calcio. La schiaccia burrosa per notti d’estate, canzoni perdute nel borgo più antico, vino che scorre rosso nei calici. Campiglia Marittima, casa di nonna, antico ospedale, pochi ricordi di quel bambino che vengon fuori tra gusto e palato, per ogni morso di schiaccia antica, giorni lontani, sipario che cala sul tempo perduto.
Gordiano Lupi
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