Gordiano Lupi – Natale in “Calcio e acciaio” – capitolo 33
Natale senza calcio, come sempre, sosta d’un campionato che non procede come il mister vorrebbe, pausa di riflessione per superare i problemi d’una squadra partita con ambizioni di primato ma che veleggia nelle zone anonime della classifica.
Il Presidente riunisce atleti e dirigenti nella sede di via Regina Margherita per gli auguri di rito, consegna un pacco con panettone e spumante, ricorda a tutti che attende una dimostrazione d’orgoglio nel girone di ritorno. Giovanni non rischia il posto. A Piombino non si può mettere in discussione l’allenatore che viene dal calcio professionistico, il vecchio centravanti dell’Internazionale di Milano, la bandiera delle ultime stagioni in provincia, l’artefice della rinascita.
Giovanni ascolta distrattamente le parole del Presidente, in fondo sono le stesse frasi sentite troppe volte nel corso della sua vita calcistica.
Tra due giorni è Natale, non va bene e non va male… ti si legge sul viso quell’allegra tristezza che c’hai…
Ripensa alle note d’una vecchia canzone che fa tornare alla memoria tanti ricordi. Non manca molto a Natale, non è difficile abbandonarsi ai pensieri, sogni che mostrano bambini in fuga tra scogliere e giochi lontani, volti di donne evanescenti, emozioni del passato.
Giovanni si sente avvolgere dalla tristezza, il Presidente parla di calcio e campionato, di feste che non devono far perdere la concentrazione e di allenamenti da riprendere, ma lui non ascolta, ripercorre le suggestioni d’una canzone e il ricordo d’un amore lontano.
E tu scrivimi, scrivimi, se ti torna la voglia, e raccontami quello che fai… se cammini nel mattino e t’addormenti di sera e se dormi, che dormi e che sogni che fai….
Tanti giorni passati davanti a un albero di Natale, scartare doni, osservare stelle cadenti immaginando che fossero comete, scambiare baci e sorrisi, condividere rimpianti. Sono anni che non scrive più lettere d’amore, ma neppure semplici parole d’amicizia. Sono anni che nessuno gliene scrive, almeno non chi vorrebbe. Un tempo Giovanni scriveva ogni settimana al padre per raccontare l’impresa più grande della sua vita. Prendeva carta e penna, descriveva la folla di San Siro, le trasferte in aereo, l’emozione di scendere in campo davanti a cinquantamila persone. Lettere che il padre conservava come trofei, leggeva e rileggeva, pensava che la sua vita non era stata inutile, perché suo figlio aveva realizzato il sogno. Turni sfibranti alla catena di montaggio, sei due – duedieci – notte, ripetuti in eterno tra il frastuono delle sbarre d’acciaio che cadevano al suolo e il caldo appiccicoso della colata continua, immerso nel tramonto innaturale dell’altoforno. Niente era stato inutile. Giovanni era diventato un campione e lui ne andava orgoglioso mentre passeggiava in corso Italia, si fermava a prendere un caffè al Bar Cristallo la domenica mattina, indossando il vestito buono, giacca, cravatta, mocassini neri e occhiali da sole.
Giovanni un tempo aveva scritto a Debora lettere d’amore, molte non le aveva spedite, spaventato dalle sue parole, forse troppo grandi, inutilmente romantiche, segnate da un vuoto senza fine.
Le lettere d’amore, quando c’è l’amore spesso fanno ridere, ma solo chi non ha scritto mai lettere d’amore fa veramente ridere…
Giovanni ripercorre il passato mentre il Presidente parla di obiettivi da raggiungere e di un girone di ritorno all’altezza delle aspettative della dirigenza e del pubblico. Certo, sono parole importanti, sono le cose in cui crede, la sua ragione di vita, ma in quel momento preferisce la nenia dei ricordi, la nostalgia d’un lungomare, il ricordo di mani sottili che sfiorano il volto: “Non lasciarmi”, dice la ragazza. Sarà il Natale…
E da dietro la porta sento uno che sale, ma si ferma due piani più giù… è un peccato davvero, ma io già lo sapevo che comunque non potevi esser tu…
Troppe volte aveva immaginato Debora, sognato di sentire i suoi passi sulle scale, lui che correva in fretta ad aprire la porta, abbracciava il suo fantasma, la baciava, diceva in lacrime: “Amore mio ho sbagliato tutto, ricominciamo da capo”. Ma non poteva essere lei a salire le scale, erano incubi che giocavano scherzi feroci sulle note d’una canzone. Non poteva essere Debora, sogno perduto ormai lontano. Non poteva essere suo padre, scomparso senza avvisare. Soltanto una canzone, scartando regali come due bambini, emozionati dopo un bacio sul lungomare, nel tepore della sera, tra calette abbandonate e barche di pescatori.
Tra due giorni è Natale, non va bene e non va male…
Giovanni custodisce tra le pieghe del volto la tristezza del tempo passato ma pure l’allegria di chi ha lottato per realizzare i sogni. Non va bene e non va male, come dice la canzone, proprio come vuole la vita, che lascia segni al passaggio e spesso fa soffrire.
Tra due giorni è Natale, pensa Giovanni.
Musica e pensieri, un bambino e il calcio balilla, una partita a flipper, il doppio spettacolo al Sempione, una nonna che stringe forte la mano, lui attento che non cadano bruscolini avvolti in carta di giornale.
Tra due giorni è Natale. Saremo soltanto io e mia madre in una casa troppo grande, pervasa dalla nostalgia del tempo perduto.
Debora resta un ricordo importante del passato. Il pensiero di averla abbandonata accompagna la solitudine, quando il vuoto interminabile dei giorni festivi, senza partite di calcio, gli fa capire che ha pagato un prezzo troppo alto per coronare il sogno.
Le note della canzone tornano alla memoria, scoprono un panorama di paludi sul mare, gabbiani che volano in compagnia di folaghe e cicogne smarrite, nell’aria tersa d’un inverno mite, dove rincorrere il passato è più facile che vivere il presente. Giovanni ama ricordare il suo amore lontano, il solo amore della sua vita, lo conserva come un’eredità pericolosa, come qualcosa di perduto da non abbandonare.
Il Presidente parla, ma lui pensa al padre, ricorda il suo sostegno incrollabile, la sua certezza, senza invadenze, con discrezione.
“Il giorno più bello della mia vita è stato quando mi hai chiamato babbo per la prima volta”, gli aveva detto tante volte.
Il giorno peggiore della mia vita, invece, è stato quando mi hai lasciato, pensa Giovanni. Intorno a me sento un vuoto enorme.
Il volto sereno del padre appare e scompare nel telo bianco della memoria, nostalgico Nuovo Cinema Paradisoche proietta pellicole in bianco e nero, la sua immagine è un ricordo confuso, nebbia informe del tempo perduto, unito al sorriso di Debora sul lungomare di Trani.
In quel Natale di provincia, così diverso e così uguale a molti altri della sua vita, Giovanni si sente come un viaggiatore abbandonato in una stazione fantasma, luogo onirico dove non fermano treni, come la piccola stazione della sua città, solitario approdo dove non attraccano navi, luogo da convertire al futuro. Giovanni non vuole la modernità, luci e ombre, tristezze e rimpianti, ma vorrebbe indietro il suo passato.
Tra due giorni è Natale, non va bene e non va male, buona notte, torna presto e così sia….
Le note della canzone accarezzano la nostalgia del sorriso buono del padre e degli occhi innamorati di Debora, aperti verso il mare, neri e profondi come il quieto abbandono d’una notte di maestrale.
Gordiano Lupi
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