Gordiano Lupi – Pier Paolo Pasolini
Detesto le interviste, per questo mi racconto da solo, ché quelli come me non muoiono, restano nelle parole della gente, sono scomodi più da morti che da vivi, sono i maestri che nessuno ascolta, eliminati e cannibalizzati, ma restano in eterno. Avete presente il corvo di Uccellacci e uccellini? Ecco, ho detto tutto, non serve dilungarsi, lui è il maestro che va ucciso e divorato. Forse avevo in mente la fine che avrei fatto, dicono che gli artisti siano un po’ veggenti.
Nasco a Bologna ma a vent’anni mi trasferisco in Friuli, a Casarsa, le radici di mia madre dentro al cuore, mio padre prigioniero in Kenya, scrivo poesie in dialetto, nella lingua materna, liriche ispirate alla terra, che parlano di campi e contadini. Tu pensa, le dedico a mio padre, un padre che non ho mai capito, che ho odiato, che mi ha disprezzato, quel padre per cui dopo morto proverò tenerezza e compassione. Il fascismo non ama il dialetto, son gli ultimi giorni di triste dittatura, in Italia non si parla di quel libro, solo Contini ne scrive, ma sul Corriere di Lugano. Compongo poesie sin da bambino, ho solo sette anni, mio padre è un militare ma ci crede, intuisce doti e future sofferenze, niente fa per fermarmi. Scrivo le Poesie a Casarsa, faccio il soldato a Livorno, in fuga dopo l’8 settembre, torno in Friuli dove mi accoglie la notizia più atroce, il tormento della mia vita: la morte di Guido, il morto giovinetto dei romanzi romani, mio fratello ucciso dai partigiani jugoslavi, pagina triste della storia che lacrima pagine di letteratura. Mi laureo in lettere, scrivo una tesi sul mio caro poeta, quel Pascoli a me così vicino, con i lutti, le tristezze e il fanciullino. E con mio padre non va per niente bene, spesso discutiamo, per fortuna mia madre mi comprende, sarà sempre al mio fianco, attrice muta accanto al suo ragazzo, Maria dolente e umana del Vangelo. Ritorno al mondo contadino tanto amato, fondo un’accademia di stregoni, scrivo saggi in dialetto e poesie, adesso che ho vicine le piccole cose dei miei campi, terra, sudore e tamerici in fiore. Ma un giorno son costretto ad andar via, ché si viene a sapere una di quelle cose che non ti possono proprio perdonare. Sono anni tristi e non posso fare niente, non posso giustificare una storia con un ragazzino, a Casarsa ormai non posso stare. Fuggo a Roma con mia madre, mio padre resta, umiliato e offeso, soltanto dopo un po’ verrà con noi, in quella Roma che m’ha dato tutto, l’amore per i luoghi e le borgate, dove sempre ho vissuto, tra Ponte Mammolo e Rebibbia, pure quando sono andato a Monteverde, in via Fonteiana. Mio padre ritorna, io che borghese non mi sento vengo via dalla borgata e lascio il cuore. Il cinema entra nella mia vita, grazie a Bassani; insegno a Ciampino, guadagno poche lire; ripubblico le poesie in dialetto, la mia sola meglio gioventù. I libri e l’impegno son la vita; Officina con Roversi, Leonetti, Romanò e Fortini, La religione del mio tempo, Passione e ideologia, decanta ancora in versi la mia storia, ma non son più usignolo, non canto da Casarsa e non ho fede. Roma mi muta l’animo, anche se porto in me i campi di Casarsa; conosco Ninetto, Franco, Sergio, apprendo il dialetto, scrivo in romanesco tutti i racconti di quel tempo nuovo, penso a un romanzo, ingenuo certo, ma sincero. Prima Ragazzi di vita, che ripaga tante sofferenze del passato, poi il corale, l’andante impietoso e mozartiano, di quella vita che sarà sempre tale, vita violenta delle mie borgate. Critici incolti mi danno del De Amicis – non è un’offesa, sai, non è un’offesa! – che fa morire annegati i giovanetti, poi del pascoliano – ed è pur vero! – dello scrittore osceno – questa poi! -, mi marchiano d’infamia. Non sanno ch’io scrivo di loro perché in fondo mi sento come loro, osservo occhi innamorati, gioco a calcio su campetti improvvisati, tra giacchette gettate come pali, reti di fantasia, in un piazzale. Pasolini che corre sulla fascia, un ragazzino attore d’un teatro, l’ultimo del mondo occidentale: il calcio.
Muore mio padre ed è il 57, ho vinto il Viareggio con Le ceneri di Gramsci, ché son poeta, è la mia natura, tutto quel che ho fatto è poesia, persino il cinema, i racconti più sboccati, le storie maledette, le passioni derelitte e abbandonate. Scrivere è cosa senza senso ma la faccio, scrivere è la mia esistenza, cosa che ho sempre fatto, fin da bambino, quel che mio padre voleva farmi fare, più di mia madre, credo, pur con i contrasti, con i litigi che abbiamo sempre avuto. Ho subito di tutto in vita mia, ma ho scritto e amato, ossimori e contrari son i miei versi, le immagini romane, le campagne assolate e i borgatari, ma non sono mai stato un depravato, non ho mai corrotto ragazzini. Forse li ho amati troppo quei ragazzi, le mie borgate, i giovinetti tristi, che popolano tutte le mie storie, cinema ribelle e fantasia, volti perfetti, volti che scompaiono, che non li trovi nei visi del presente, scomparsi come lucciole, soffi di flebile illusione. Accattone è il mio sogno più bello, cupo e solare, immagini di vita, un neorealismo languido, un bagno di passione, musica, sole e vento, ricordo della terra e di poveri sogni malandrini. Mamma Roma, La ricotta, il Vangelo, Edipo Re, Medea, Porcile, Teorema, vita, amore e tanto sesso, Decameron, Canterbury, Mille e una notte, infine quel Salò, con i suoi eccessi. Non chiedermi il motivo, dirtelo non saprei, non proprio adesso che ormai tutto è finito, non ora che ti ho salutato e ho compiuto il gesto con la mano. Siamo al funerale del maestro, grillo parlante o corvo non importa, è soltanto chi non va ascoltato, lo devi solo uccidere e mangiare per tener sempre con te le sue parole. Il mio me stesso è tutto poesia, in forma di rosa, spigoli e rimpianti – Trasumanar e organizzar, ricordi? -, la mia eredità, il mio eros, l’amore per la vita e la tristezza, il disincanto, il perduto oblio, l’affetto per mia madre, la pena per mio padre, amato soltanto dopo morto. Perdo l’amore, torno a quel ch’è stato, consapevole che Edipo un segno in me ha lasciato, ho amato la madre e disprezzato il padre, la borghese arroganza del padrone. Faccio scandalo solo con la mia vita e scandalo riproduco nei miei film, negli articoli, polemici e bizzarri, negli attacchi violenti a quel potere che – ormai lo so – me la farà pagare. Corsaro del mio tempo, scrivo e attendo, aggrappato alla macchina da presa che mi ha visto regista dilettante apprendere il mestiere da parole gettate al vento e in faccia a quei borghesi. Muoio in un campo di calcio improvvisato, una mattina del 75, uno di quei campetti dove amavo lasciare la giacchetta in mezzo al prato e indossare scarpette bullonate, era un modo di fare il mio teatro, in questo mondo in dissolvenza che scompare, un mondo che più non posso amare. Ho vissuto tra quadri di Masaccio e sinfonie di Mozart in sottofondo, scenografia dorata della mia terra vista dalla luna, poesia che non è merce – quando mai? -, ché non la consumi, puoi godere mille volte di quei versi, non li logori, non li perdi mai, ogni lettura ti rende un po’ migliore. Forse è giusto anche morire, quando la vita è un incubo malsano, un pensiero assurdo, se tutto è merce, prodotto da gettare. Forse per questo lasci alle tue spalle un testamento composto di parole che non riesci neppure a interpretare, ma ce le hai dentro, sono la tua vita – quel ch’è diventata – quelle terribili sequenze di massacro.
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