“L’abbuffata” di Pelagio D’Afro
Il silenzio regnava sulla landa. La vecchia casa di campagna odorava di legno marcio, di muffa e di deiezione di mustelide. La vecchia Opel Zafira ancora ansimava per aver portato sulla collina i sette scapoli ultraquarantenni, gli stessi che ora erano intenti ai febbrili preparativi di quella che doveva essere una serata speciale.
“Avanti coi piatti” disse Giacinto, recando trionfante un’ecatombe di tagliatelle al tartufo e di spaghetti aglio, olio, peperoncino e bottarga.
“Avanti con gli alcolici” disse Rolando caracollando.
Dovevano essere pronti per l’evento. Il che significava, per tacito e annoso accordo, tronfi ed ebbri.
Dopo i primi venne la grigliata mista.
“Stasera si tromba” disse Bob alzando al cielo l’ennesimo cristallo, mentre Filippo gli porgeva l’ennesima salsiccia piccante.
“Perepepè” fece eco Alessio dall’altra lignea estremità del rozzo tavolaccio, con greve umorismo da taverna di infimo ordine.
Poi venne la crostata.
“L’assunzione abbondante di Malvasia delle Lipari è un discreto succedaneo dell’orgasmo” enunciò Rolando, soddisfatto autoreferenzialmente del proprio eloquio forbito.
Infine il campanello squillò.
“È in anticipo” biascicò Pino, nato sotto il pignolo segno della Vergine.
“Avanti” dissero in coro, incuranti, le altre ugole tremolanti.
Dirompendo superba nell’empio rettangolo dell’uscio, madame fissò gli occhi di bragia sugli astanti già adoranti. Lunghissimi capelli corvini, lingerie nera, giarrettiere nere e neo posticcio: sembrava la Marchesa de Pompadour riesumata per tener fede al glorioso nome della sua schiatta. Due esuberanti e turgidi poponi premevano i capezzoli sul tessuto sottile dell’abito succinto.
Il turgore fu unanime.
“Dio, che figa” disse Lapo banalmente.
“Odo augelli far festa” chiosò Rolando aulicamente.
“Non è quella della foto” protestò Alessio prosaicamente.
“E chi se ne frega” rispose Bob allegramente.
La donna avanzò ancheggiando verso Giacinto, a capotavola, che si slacciò subito la patta con fare da uomo di mondo.
“E che cazzo!” commentò Filippo, mentre madame lo faceva sparire fra le labbra, trovando poi la sua posa naturale a novanta pitagorici gradi.
Rolando stava per iniziare una riflessione sul fatto che i pitagorici non mangiavano le fave per motivi religiosi, ma si trattenne; si prostrò invece gattoni e iniziò a leccare gli alti tacchi su cui torreggiavano irresistibili malleoli e ambrati polpacci torniti; Filippo si aggrappò con veemenza ai due esuberanti e turgidi poponi come un agricoltore in erba; Lapo, seguendo attonito la scena, iniziò a mugolare in un angolo buio della sala da pranzo.
Bob e Pino versarono del Prosecco di Cartizze sul solco perineale della donna con solenni movenze pseudosacerdotali; poi presero a lapparlo con voluttà scambiandosi ambigui cenni d’atavica intesa.
“Che soave fanciulla” vagheggiò liricamente Bob.
“Sembra un fiore” rantolò metaforicamente Pino.
Ma fu a quel punto che Giacinto iniziò a urlare, spargendo intorno a sé globuli rossi e spermatozoi ormai vieti.
Dopo qualche minuto non urlava più nessuno nella vecchia casa di campagna che odorava di legno marcio, di muffa e di deiezione di mustelide.
Il silenzio tornò a regnare sulla landa mentre l’oscena creatura di foglie e radici tornava sazia alla sua dimora millenaria.
Come da accordi telefonici intercorsi, era mezzanotte in punto quando Libenzia Nonescu entrò e vide i sette corpi esangui. Fu inizialmente assalita dal terrore. Poi però tastò le tasche dei cadaveri e si rasserenò. Indossò i guanti d’ordinanza, sfilò i portafogli e li ripulì del contante.
Presto fu solo un’altra ombra nella nera notte della landa.
(Pelagio D’Afro)
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