Luca Palmarini – Pianeta Est – Ritorno a Belgrado: lo stadio Marakanà, quando il calcio racconta la storia di un popolo
Un ritorno in un luogo dove si è stati anni addietro implica sempre il fatto che si notino i cambiamenti, e di cambiamenti nei paesi che una volta si trovavano oltrecortina ce ne sono stati tanti.
La prima volta che visitai Belgrado e l’allora (mini) Jugoslavia composta da Serbia, Montenegro e Kosovo, fu nella seconda metà degli anni Novanta. Arrivai nella capitale serba da Bucarest, quindi percorrendo una tratta allora inusuale per un turista. Il mio mezzo di trasporto era quello che, come afferma anche Paolo Rumiz, riporta vagamente ai fasti di una ormai lontana Mitteleuropa, ovvero il treno. Ho sempre amato il treno e mi ritengo fortunato di aver fatto parte della generazione Interrail. Per me questo mezzo di trasporto nei paesi dell’Europa centro-orientale ha sempre avuto un sapore esotico, vuoi per i nomi spesso impronunciabili di alcune stazioni che incontravo lungo il percorso, vuoi per la funzione di Porte dell’oriente che avevano alcune città come Budapest, Belgrado e Sofia.
La notte di viaggio che separava la Gara de Nord di Bucarest dalla stazione di Belgrado era lunga e umida. Il convoglio era stipato di rumeni diretti verso la Serbia. Erano quelli i tempi della Jugoslavia di Slobodan Miloševič e i cittadini del paese di Dracula si recavano in massa nela paese vicino per commerciare. Quella parte di Balcani, oltre a dover fare i conti con gli effetti della guerra che aveva dissolto il paese, era in allora sottoposta a un forte embargo da parte del mondo occidentale, embargo che ne soffocava l’economia. Al mattino presto arrivammo alla frontiera. Molti rumeni scesero proprio al confine, trasformato in un grande bazar in cui si poteva trovare di tutto. Ma era proprio di questo che in quegli anni c’era bisogno in Jugoslavia: tutto. Le classi politiche e militari si arricchivano insieme alle bande criminali, mentre il resto della popolazione lottava per la sopravvivenza economica.
Durante il viaggio avevo tranquillamente conversato con alcuni rumeni e bulgari che mi dissero all’unisono:
̶ Negli anni Settanta per noi la Jugoslavia era il paradiso. Qui c’era il benessere, il turismo, noi eravamo i poveri che, se potevano, venivano a fare acquisti in un paese ricco. Oggi le parti si sono invertite, la guerra e la chiusura dell’occidente hanno sconvolto l’ecnomia della Serbia e noi raggranelliamo qualche soldo venendo a vendere in questo paese alcuni prodotti difficili da reperire.
Il treno intanto rallentò la sua corsa per poi fermarsi docilmente, quasi avesse paura di entrare nella piccola Jugoslavia allora annoverata tra i cattivi dalla comunità internazionale. Poco dopo nello scompartimento entrò un doganiere. Per me, che fin da bambino avevo avuto contatti con la strana realtà del Friuli-Venezia Giulia e della sua militarizzazione durante la Guerra Fredda, le guardie di confine jugoslave si associavano al timore che si aveva di uno dei più temibili e organizzati eserciti di allora, pronto ad invadere l’Italia per annettersi Trieste e territori limitrofi.
Dopo aver svolto il suo lavoro, ovvero avermi squadrato da capo a piedi con una sorta di vista a raggi X mentre sfogliava scrupolosamente il mio passaporto, la guardia confinaria mi chiese se avessi con me del denaro. Memore di altre spiacevoli avventure in cui i soldi mostrati erano spariti tra le dita di lugubri funzionari di confine, gli risposi dicendo di avere solo bancomat e carta di credito. Quello mi rispose in un inglese perfetto:
̶ Allora non ti posso far entrare nel paese. C’è l’embargo, non lo sai? Le carte di credito occidentali qui non funzionano.
Solo allora mi “ricordai” di una banconota da cento dollari accuratamente nascosta in un calzino. Gliela mostrai, rassegnato al fatto che me l’avrebbe requisita, ma la guardia dalla sguardo truce, senza nemmeno toccarla, laconicamente esclamò: “Luca, welcome to Yugoslavia”. Poi si lasciò andare in un sorriso amichevole che in parte riassume oggi la mia simpatia verso questo popolo e che mi dà la conferma nel non credere troppo ai luoghi comuni.
Ero così entrato in quel paese allora ritenuto l’unico responsabile delle guerre che poco prima avevano sconvolto e insanguinato la penisola balcanica. Colpevole, certamente, e non poco, ma di sicuro non l’unico.
Il biglietto di visita di Belgrado fu la città industriale di Pančevo. La spiavo dal finestrino, curioso di quali segreti potesse nascondere. Qualche anno più tardi, il suo nome mi ritornò all’orecchio quando i bombardamenti della Nato ne avrebbero devastato la locale raffineria. Dopo un po’ il treno venne avvolto dalla periferia della capitale. Belgrado mi affascinò fin dal momento in cui scesi dal treno. La collina su cui sorgeva la città vecchia sembrava sonnecchiare, addormentata dal mormorio degli inesorabili flutti del Danubio e della Sava che da secoli solcano le terre serbe.
Come il classico turista dapprima mi recai verso il centro della città vecchia. Belgrado, la città bianca, è un misto di stili architettonici dovuti alle varie influenze e occupazioni, ma anche alle distruzioni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Si sono conservati alcuni angoli di storia come la centrale Knez Mihalova, la via del passeggio, o la via Skadarlija, la Montmartre belgradese. Chiese ortodosse, mosche ed edifici in liberty occidentale ne sottolineano la multiculturalità.
Allontanatomi dal centro mi venne un’idea. Ai tempi d’oro la città era famosa anche per il suo stadio principale, il Rajko Mitić, più comunemente conosciuto come Marakanà, scritto con la kappa, soprannome che andava a sottolinearne la capienza dei posti a sedere. Decisi di andarlo a visitare. Non si trattava, però, solo di appagare la curiosità di un appassionato di pallone. Infatti, forse più che in ogni altro luogo del mondo, nei paesi dell’ex Jugoslavia il gioco del calcio assume contorni etnici, di identità culturale, spesso purtroppo anche dai risvolti tragici.
Basti pensare a Zagabria e a Sarajevo. Lo stadio della capitale croata, il Maksimir, viene simbolicamente considerato il luogo dove tutto ebbe inizio. Qui il 14 maggio del 1990, pochi giorni dopo le lezioni in cui avevano prevalso gli indipendentisti croati, ebbe luogo quella fatale partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa dove i rancori etnici esplosero in gravi tumulti. Molti degli ultras che parteciparono a quella guerriglia qualche tempo dopo si sarebbero trovati a far parte delle diverse milizie nazionaliste che avrebbero compiuto stragi e massacri in diverse parti della ex Jugoslavia. A ricordo di quel giorno, all’esterno della struttura si trova persino un monumento.
I due stadi di Sarajevo ci fanno tornare col pensiero alla guerra in Bosnia. Nel 1992 il Grbavica si trovava proprio sulla linea del fronte della Sarajevo assediata: venne saccheggiato dai serbo-bosniaci, la tribuna ovest venne data alla fiamme mentre il resto dell’impianto venne minato. Spesso i carri armati sostavano sul campo per poi andare a bombardare i quartieri non serbi. L’impianto era chiamato “Valle delle coppe”, per i trofei in esso conservati, quasi tutti andati perduti nel conflitto. Anche l’altro stadio della capitale bosniaca, il Koševo, venne in buona parte distrutto durante la guerra mentre il campo da calcio adiacente, predisposto per gli allenamenti, fu trasformato in un cimitero dove si seppellivano le vittime dell’assedio.
Ma torniamo a Belgrado. Lo stadio Marakanà per sua fortuna non ha vissuto episodi simili, ma resta anch’esso uno dei simboli dell’identità di un popolo. Quando ti ci avvicini un brivido ti percorre la schiena, non puoi non ritornare a quelli che furono i fasti del passato, gli anni di gloria della squadra Stella Rossa, della nazionale jugoslava e dello stadio stesso.
L’impianto belgradese venne fondato nel 1963. Il suo periodo d’oro arrivò negli anni Settanta quando raggiunse una certa fama internazionale. Nel 1973 lo stadio ospitò la finale della Coppa dei Campioni, Ajax-Juventus, vinta dagli olandesi guidati da Cruijff,per uno a zero. Nel 1975 la Stella Rossa arrivò alla semifinale di quella che allora era la Coppa delle Coppe e per la partita in casa con la squadra ungherese del Ferencváros si registrò il record di presenze con 110.000 spettatori.
Nel 1976, con la fase finale dei campionati europei svoltasi in Jugoslavia (solo quattro partite), il Rajko Mitić ospitò due incontri, la semifinale Jugoslavia-Germania Ovest (2 a 4 dopo i supplementari) e il 20 giugno la finale Cecoslovacchia-Germania Ovest (5 a 3 ai calci di rigore). Due incontri con protagonisti tre paesi che oggi non esistono più. A volte, guardando al passato, non mi capacito ancora di comprendere come il mondo che mi circondava quando ero ragazzo sia cambiato così in fretta.
Quella finale del campionato europeo al Marakanà di Belgrado fu un qualcosa di surreale. Lo stadio era tutt’altro che pieno, solo 35.000 spettatori. Era l’infelice sintesi dell’incontro dei due sistemi: costo del biglietto adattato a standard occidentali, capacità di portafoglio del cittadino medio jugoslavo ancorata alle possibilità economiche del blocco orientale.
Appassionato della storia dei paesi oltrecortina non posso non dimenticarmi del buon Antonin Panenka, giocatore di quella Cecoslovacchia mina vagante del torneo. Proprio quel calciatore, che con i suoi tetri baffoni neri incarnava l’immagine del classico uomo dell’est, si trovò tra i piedi il pallone che avrebbe portato la prima Coppa Europa al suo paese. Doveva infatti tirare l’ultimo rigore per la Cecoslovacchia (che fino a quel momento li aveva messi a segno tutti mentre la Germania Ovest ne aveva sbagliato uno). Rincorsa lunga e potente, poi uno stop improvviso prima di calciare. Mezzo secondo, forse anche meno, e Sepp Maier, portiere del Bayern Monaco e della nazionale tedesca occidentale si era già sbilanciato da un lato mentre Panenka con un pallonetto morbido morbido scodellava la sfera al centro della porta. Un gol storico, al di là del risultato, per il metodo con cui venne realizzato. Infatti, il portiere tedesco ignorava che Panenka avesse una predilezione per questo modo di tirare i rigori. Qualche volta il boemo questo numero lo aveva fatto anche giocando con il suo club, il Bohemians di Praga. Un portiere dei giorni nostri avrebbe visionato fior di video, oppure si sarebbe recato sul posto per studiare l’avversario. In fondo Praga e Monaco distano poco più di due ore di viaggio, ma quelli erano i tempi della cortina di ferro. Dai paesi del blocco orientale neanche le informazioni sportive oltrepassavano facilmente quel confine impenetrabile. Così l’opinione pubblica occidentale venne a conoscenza di quel modo di tirare un calcio di rigore soltanto in quell’occasione, a Belgrado, allo stadio Marakanà aperto a un contesto internazionale. In breve quel modo tutto particolare di calciare dagli undici metri, chiamato in tutto il mondo “Panienka” ̶ tranne che in Italia dove si preferisce la definizione “cucchiaio” ̶ cadde nell’oblio per più di vent’anni, per poi venire riscoperto grazie a Francesco Totti e ad altri fuoriclasse. D’altronde quell’episodio era avvenuto in quella lontana Belgrado dove soffiano gelidi venti balcanici mentre il protagonista era un calciatore di un paese di cui si sapeva poco. Inoltre Panenka aveva un aspetto non proprio adatto alla figura di uomo immagine, con quel taglio di capelli che sembrava fatto con le forbici da giardino e i baffoni da cavaliere delle steppe. Per la cronaca, qualche anno più tardi Panenka riuscì a oltrepassare la cortina di ferro per andare a giocare nel Rapid Vienna dove vinse anche alcuni campionati e coppe nazionali. Era uno dei segnali che il blocco comunista si stava lentamente aprendo all’occidente.
Guardando agli spalti del Marakanà, oggi assediati dalle pubblicità dello sponsor del club, il gigante russo Gazprom, col pensiero vado all’anno d’oro della Stella Rossa, il 1991-1992, quando la squadra serba vinse la Coppa dei Campioni, competizione che nel mio impietoso immaginario personale starà sempre a significare qualcosa di meglio della Champions, mera espressione del dio denaro. La finale si giocò a Bari, in Italia. Un trionfo lontano dal Marakanà, dunque, ma se ci si trova sugli spalti di questo stadio non si può non pensare ai tripudi di gioia che seguirono qui, nella tana della squadra più blasonata dell’ex Jugoslavia.
La Stella Rossa fu la seconda squadra “dell’est” a vincere la Coppa dei Campioni dopo la vittoria di un’altra Stella, la Steaua Bucarest, nell’anno 1985-1986. La Perestrojka era arrivata anche attraverso il calcio. Poi la guerra e il buio.
Da due anni la Stella Rossa sembra essere tornata a un certo livello calcistico, pur rimanendo assai lontana da quella compagine stratosferica che si era costituita a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Si tratta comunque del secondo anno di seguito che la squadra si qualifica per la fase a gironi della Champion’s League.
Come ho accennato all’inizio, quando ritorni in un luogo, dapprima sei spinto a notare quello che è cambiato, poi ti soffermi a guardare quello che è rimasto invariato. Forse si tratta della necessità di una sorta di conferma psicologica del “io c’ero”, del “quello c’era anche ai miei tempi”. Nonostante negli anni successivi dalla Serbia si siano affrancate altre entità (Kosovo e Montenegro), ancora oggi al Marakanà si respira quel clima specifico che contraddistingue questo santuario del calcio. Fumogeni e coreografie spettacolari affascinano gli spettatori, percorrere “il tunnel della paura” ̶ così è chiamato il passaggio sotterraneo che conduce in campo passando sotto la curva dei tifosi – è sempre da brivido. Anche le violenze degli ultras serbi restano putroppo all’ordine del giorno. Ed ecco che a soffermarsi in questo luogo riaffiorano i fantasmi del passato come il capo delle Tigri, Zeljko Raznatovič, Arkan, prima capo ultrà, poi di una delle milizie che attuarono la puliza etnica, o più recentemente Ivan Bogdanov che “si è distinto” anche a Genova (e che tanto fantasma non è). I tifosi più caldi della Stella come i Delije, ‘gli eroi’, vivono nell’attesa del Veciti Derbi (derby eterno), danno spettacolo insieme ai rivali Grobari, ‘i becchini’, gli ultras del Partizan, l’altra grande squadra di Belgrado.
Spettacolo e paura prendono forma in un cocktail esplosivo: per l’ottenuta qualificazione alla Champion’s League di quest’anno (2019-2020) i tifosi per festeggiare si sono presentati davanti al Marakanà con un carro armato trovato chissà dove. Bizzarrie di una terra balcanica che ci riportano alle scene dei film culto di Emir Kusturica.
Oggi tornare a Belgrado è anche questo: rivivere la storia del calcio jugoslavo, non solo per i risultati, ma soprattutto perché da queste parti in questo sport ci si identifica. Nel bene e nel male qui il calcio ci racconta appieno la storia di un paese che non esiste più.
Luca Palmarini
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