Marco Amore – Prosit! – Intervista a Stefano Taccone
Bentrovato, amico lettore. Quest’anno reca con sé tante novità: per cominciare l’ammodernamento del format di PROSIT!, che passa dall’essere una rubrica per gli addetti ai lavori a una sezione di stampo mainstreamcon contenuti accessibili a chiunque. In secondo luogo l’interesse per le personalità borderline mi spinge ad uscire dagli schemi ed approfondire i cosiddetti intermedia. A proposito di voci fuori dal coro… l’ospite di oggi sarà il critico d’arte Stefano Taccone (Napoli 1981), dottore in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica presso l’Università di Salerno e autore di importanti monografie d’arte contemporanea e di una raccolta di racconti di cui parleremo di qui a breve. Allora, Stefano, dicci come mai sei passato dalla saggistica alla fiction.
Beh, premetto che ho cominciato a scrivere fin da bambino – 6-7 anni. Inventavo storie con personaggi dei cartoni animati, specie disneyani – non è certo un caso che anche nell’odierna raccolta ricorrano reminiscenze dell’immaginario disneyano, benché naturalmente lo sguardo sia adesso a tutti gli effetti quello di una persona adulta – o ne inventavo di altri che però ricalcavo su quelli esistenti. Poi gli studi di storia dell’arte hanno condotto la mia attenzione verso altri interessi. Credo di aver riversato per anni i miei bisogni creativi legati alla scrittura nella critica d’arte e nel testo argomentativo in generale. Su di un piano emotivo è probabilmente molto più facile essere critici piuttosto che produttori di opere. Il critico ha sempre una posizione laterale, parassitaria, gregaria. Nel passato recente è senz’altro avvenuto che alcuni critici acquisissero più notorietà ed onori – lasciamo stare se meritati o meno – degli artisti stessi. Resta però il fatto che il critico ha sempre un oggetto al quale riferirsi; mette in gioco i suoi sentimenti in prima persona, ma fino ad un certo punto: non è mai nudo!
Se sono riuscito a passare dalla saggistica alla narrativa è proprio perché ad un tratto ho raggiunto una maturità psicologica tale da infrangere tutta una serie di inibizioni che mi avevano sempre frenato. L’espediente che mi ha permesso questo passaggio è stato il sogno. Scrivevo i sogni appena sveglio al mattino e mi sembravano equivalere ad immagini e ad azioni di grande impatto. Dunque mi sono chiesto perché non partire dal mio involontario lavoro onirico e sottoporlo ad una “postproduzione” cosciente? Il risultato è stato qualcosa che – per quello che mi hanno detto persone che conoscono la storia della letteratura molto meglio di me – destituisce completamente le convenzioni narrative tradizionali a beneficio appunto di una dimensione spazio-temporale tipica del sogno.
Mi si potrebbe chiedere a questo punto perché ho sentito l’esigenza di una “postproduzione” e non ho preferito raccontare i sogni in maniera perfettamente aderente a come si sono svolti. Risponderei che non è stata solo una mera scelta di poetica.La psicologia del profondo ci spiega che, per quanto qualcuno si ponga a registrare su carta il suo sogno un attimo dopo essersi svegliato, il ricordo ”evapora” con una velocità impressionante e dunque, anche volendo, è impossibile restituire la completezza, oltre che la complessità, del sogno attraverso la scrittura. Il materiale sognato non diveniva così che un punto di partenza, una traccia per una storia che poi si sviluppava con una rapidità ed una ricchezza di implicazioni tali da stupire – e talvolta addirittura spaventare! – me stesso. Persino quando la mia fantasia da sveglio concepiva snodi narrativi mi sembrava di essere più spettatore che produttore di ciò che pure stavo scrivendo io e nessun altro! Tuttavia non tutti i racconti – ma solo la maggior parte – derivano da sogni, anche perché ad un certo punto ho cominciato a conoscere talmente il mio “narratore involontario” da divenire capace di plagiare il mio stesso inconscio da cosciente!
D.Il ricorso all’io narrante in tutti i racconti dà l’impressione che la figura del narratore coincida con quella dell’autore, più che con un qualsiasi protagonista fittizio. Il fatto che s’incontrino continui riferimenti al campo dell’arte durante la lettura, uniti alle ambientazioni partenopee e alla conclamata napoletanità del personaggio, ne dà ulteriore conferma, rendendo questi splendidi racconti brevi quasi delle poesie in prosa, più che delle semplici novelle. Del resto anche il fatto che il narratore omodiegetico di “Irruzione afro-italiana” (pag. 35) nutra un particolare disprezzo per gli smartphone, così come il narratore del racconto immediatamente precedente, fanno propende l’ago della bilancia verso questa ipotesi, secondo me tutt’altro che campata in aria. E proprio in quest’ultimo racconto si tira in ballo in maniera scoperta la psicologia analitica, finora presente in sordina ma pilastro fondante del libro – che potremmo quasi definite un roman à clef, una sorta di faldone delle visioni oniriche dell’autore (dei veri e propri <<sogni-loqui>>, insomma), ma quanto c’è in verità di Stefano nei racconti in questione e quanto si rischia a interpretarli cabala alla mano?
La tua domanda contiene in sé già buona parte della risposta. Coloro che hanno letto Songniloquisenza conoscermi o senza conoscermi a fondo si sono chiesti quanto l’autore e l’io narrante coincidessero, ma generalmente non hanno provato ad azzardare un’ipotesi sulla base di tutti gli indizi che tu acutamente hai colto e raccolto – i riferimenti alle arti visive; a Napoli e in particolare alla zona flegrea, aggiungerei; l’idiosincrasia per gli smartphone… Coloro che invece hanno letto la raccoltaconoscendomi a fondo non hanno potuto che constatare una trasparenza quasi assoluta tra le due figure di cui sopra. Per alcuni degli appartenenti a quest’ultima tipologia è stata una esperienza talvolta spiazzante: magari sono grandi lettori ma non si erano mai trovati di fronte una narrazione in cui ritrovavano tratti del profondo di una persona che conoscevano fin troppo bene. Questo ha impedito loro di concepire Sogniloquicome una lettura tra le altre, che si può apprezzare o meno. È stata per loro un’esperienza assolutamente inedita, a parte; come per me del resto è stato scriverli.
Quando ho mandato il libro in stampa non mi importava che si cogliesse o meno il quiddi autobiografico che c’è in Sogniloqui; anzi, forse propendevo più per la speranza che esso non fosse scoperto. La circostanza per cui a te – che mi conosci solo superficialmente – sia apparso chiaro dimostra invece che al lettore attento – sono sempre di meno! – ho lasciato – senza alcuna deliberata intenzione – tutte le tracce utili a risolvere l’arcano, pur avendo a disposizione solo pochi dati della mia vita pubblica da incrociare con tali tracce.
D’altra parte dire che c’è molto di autobiografico non ha niente a che vedere con l’autobiografia. Portare fuori le mie paure ed idiosincrasie che si sono manifestate nei sogni non ha fatto altro, a mio parere, che sollevare, attraverso l’arma della surrealtà, tutta una serie di tematiche che riguardano il nostro presente, in cui tante altre persone – anche donne, anche non napoletani – possono ritrovarsi. Sostituire una struttura narrativa più tradizionale con quella tipica del sogno è stato però un elemento fondamentale: i racconti evocano questioni quali le catastrofi ambientali, sollecitando la paura della loro imminenza; nozioni quali quella di straniero ben al di là degli stereotipi di una certa politica che strumentalizza l’antirazzismo – che ormai è diventato quasi una virtù, quando dovrebbe essere il minimo per una persona civile –; scenari che ben conosce chi è addentro al mondo dell’arte contemporanea, che però vanno a trasformarsi in situazioni distopiche; ossessioni (anti)tecnologiche che si connettono all’impossibilità di condurre una vita sconnessa dalla tirannia astraente del quantitativo…
D.David Foster Wallace afferma testualmente che “cercare di essere sempre informati e colti oggi significa sentirsi quasi sempre stupidi, e aver bisogno di aiuto”. Nei tuoi racconti ho riscontrato una profonda umiltà: umiltà nello stile, assolutamente privo di pleonasmi quanto di futili orpelli, ma anche e soprattutto umiltà e onestà intellettuale, frutto di una costante ricerca identitaria. O mi sbaglio?
Beh, l’affermazione di Wallace mi appare, di primo acchito, un adattamento in chiave contemporanea del non sapere socratico. Credo che quest’ultimo non sia un principio universale – faccio fatica ad adoperare tale nozione! –, ma costituisca senz’altro una massima che da oltre duemila anni attende ancora una reale smentita, malgrado i – reali o presunti che siano – progressi della scienza. Tuttavia non voglio eludere appunto lo specifico riferimento al presente, che l’affermazione del compianto scrittore statunitense contiene con ogni evidenza. Molto si potrebbe osservare circa la specializzazione del sapere. Fino a che punto, ad esempio, è da considerarsi una evoluzione naturale tipica degli ultimi decenni e fino a che punto, invece, essa non è stata indirizzata deliberatamente? Non voglio correre il rischio di apparire complottista, ma mi sembra evidente che il proliferare di specialismi che comunicano sempre meno tra loro è strettamente connesso alla difficoltà di elaborare una teoria critica unitaria del presente. Ivan Illich, Guy Debord e tanti altri, sia pure con diverse sfumature, hanno messo in evidenza i danni sociali, culturali ed antropologici delle professionalizzazioni in anni in cui l’Europa viveva ancora il suo “miracolo economico”. Tuttavia, limitandoci al solo campo culturale, se pensiamo che cos’era il mondo delle arti visive, della letteratura, della musica, della filosofia etc. all’epoca in cui personaggi del genere cominciavano a denunciare il fenomeno degli specialismi e li confrontiamo con quello di oggi non possiamo non rimanere sconcertati: la mia impressione è che attualmente tali mondi vivano ognuno all’interno di una propria bolla, quasi impermeabili l’uno rispetto all’altro, e che non fosse così ancora negli anni sessanta-settanta, allorché tra le figure che li popolavano vi era ancora un importante interscambio di esperienze e conoscenze.
Il tuo attribuirmi “umiltà ed onestà intellettuale” è per me – inutile dirlo – un grande complimento! Effettivamente la mia vita è stata una lunga ricerca identitaria, segnata dall’esigenza – talvolta un po’ disperata – di conciliare pensieri e passioni – almeno potenzialmente – contrastanti, di mettere d’accordo mente e cuore attraverso una sintesi che non lasciasse fuori nulla o quasi di tutte le mie intricate istanze. Tenere insieme la teoria e la prassi, il politico e lo spirituale, il noetico e l’estetico, il verbale e il visivo, il pane e le rose… Lungo questi ed altri nodi si è sviluppata in questi anni la mia vita-ricerca. Propedeutici all’onestà intellettuale credo siano uno sforzo di memoria entro un contesto funestato da pseudo-emergenze che corrispondono ad altrettante bolle mediatiche, nonché una capacità di leggere in maniera flessibile il mutare dei tempi. Onestà intellettuale vera e propria ritengo sia invece riconoscere gli eventuali errori passati nella valutazione di determinate contingenze storiche, nonché avere il coraggio di affermare che, date le trasformazioni che sono avvenute dentro e/o fuori di te, non ritieni più sostenibile una determinata posizione di cui primariamente hai fatto persino una bandiera. L’umiltà sorge da tante cose, ad esempio dalla coscienza di essere un piccolo puntino non solo nell’universo, ma anche nell’infosfera. L’umiltà però non ha niente a che vedere con la svalutazione di se stessi e tanto meno con lo sfascismo ed il nichilismo. L’umile anzi ha piena stima di sé. Talmente tanta stima che può permettersi di essere appunto umile, di non raccontarsi come persona eccezionale per vivere serenamente, né di cercare il riconoscimento altrui della propria presunta eccezionalità. L’umiltà ti permette di abbandonare al suo destino certi pesi; l’umiltà è leggerezza!
D.Il critico – hai detto in precedenza – mette in gioco i suoi sentimenti solo parzialmente, senza mai svelarsi davvero. Il tuo denudarti sembra, invece, dovuto alla necessità di superare ancora una volta i tuoi limiti, cambiando letteralmente il tavolo di gioco, malgrado stessi vincendo la partita. Possiamo dire che la partita l’hai vinta lo stesso o credi sia ancora prematuro parlare al momento di vittoria?
Ammetto che non mi trovo molto a mio agio con le categorie di vittoria e di sconfitta e ciò per molti motivi. Ad esempio il principio di umiltà non è che trovi una aderenza così perfetta con l’immagine della vittoria individuale. D’altra parte forse le vittorie che maggiormente ho sognato erano vittorie “collettive” ed in oltre vent’anni di sogni e “loqui” devo dire che di vittorie intorno a cause comuni per le quali ho tenuto e lottato me ne ricordo davvero poche, forse nessuna. Questo non vuol dire tuttavia che tali cause non avessero un loro fondamento di giustizia, né che abbia smesso di guardare verso certi orizzonti.
Vengo tuttavia al merito della domanda, della quale non mi sfugge il senso più pieno. Tentare di “superare i limiti”, di “cambiare il tavolo di gioco”, è per me tutto tranne che un’ostentazione di virtuosismo, un vezzo legato alla volontà di intromettermi in ogni campo possibile. Tali attitudini non hanno corrisposto che ad un profondo bisogno, una necessità di esprimermi in modo diverso e di parlare anche ad un pubblico almeno in parte differente, senz’altro più ampio. Parlare ad un pubblico più ampio di quello al quale può rivolgersi ad esempio la mia ultima monografia, La radicalità dell’avanguardia (2017), produce senz’altro sensazioni soddisfacenti, ma non ha niente a che vedere – sia chiaro! – con un mero desiderio diappealquantitativo. Esso equivale piuttosto alla scoperta di un espediente attraverso il quale trasmettere finalmente sollecitazioni e stimoli anche a persone che oggettivamente non possedevano gli strumenti per fruire adeguatamente di altri miei testi precedenti, nella convinzione che la condivisione – tanto quella dell’autore con i suoi lettori, tanto quella dei lettori con l’autore – sia ricchezza dello spirito.
Il motivo più profondo di questo che comunque non è un passaggio dalla saggistica alla narrazione, bensì solo un allargamento dei miei paradigmi di riferimento circa la pratica dello scrivere, è in ogni caso legato innanzi tutto ad una esigenza del profondo: la riemersione di quella passione che in me esisteva fin dall’infanzia, come già accennavo prima, ma che, per tutta una serie di motivi, non aveva mai avuto occasione di manifestarsi nella sua pienezza in età adulta. L’essere riuscito a tirarla fuori ed averlo fatto evitando – almeno spero – una caduta qualitativa rispetto a tutta la mia produzione saggistica forse effettivamente si può considerare una vittoria. Ma questo davvero è per me il punto massimo della mia concezione di vittoria individuale. Oltre non posso spingermi!
Marco Amore
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