Mirko Tondi – Brandelli di uno scrittore precario – 5 – L’importanza dell’editing (parte seconda)
Riprendiamo il discorso interrotto la volta scorsa e concludiamo a proposito di editing. Avevo chiuso con una citazione di Claire DeLannoy e ricomincio con lei, che dice, riguardo al lavoro di editor che deve intervenire sul testo a volte con tagli sostanziali: «…come se l’autore volesse dire tutto, come se quel tutto potesse essere detto. Mentre, al contrario, l’artificio del romanzo è di far credere al tutto nominandone solo un’infima parte» (il libro è Lettera a un giovane scrittore, se vi capita prendetelo, perché con pochi euro fate un buon investimento). La lezione mi pare utilissima: non si può dire tutto. Non si deve dire tutto, attraverso il romanzo. Vi basterà prendere un qualsiasi scambio tra Thomas Wolfe e Max Perkins (soprannominato “l’editor dei geni”, perché scoprì, oltre a Wolfe, gente come Hemingway e Fitzgerald), per rendervene conto. Wolfe era un fiume in piena e accumulava pagine su pagine in maniera disordinata, quasi compulsiva; solo con l’aiuto del suo editor riuscì a fare una selezione necessaria, a scremare tutto quello che non era funzionale, lungaggini e divagazioni eccessive (un altro libriccino fondamentale è Storia di un romanzo, bell’investimento al pari del precedente).
Un’ulteriore lezione, in questo senso, l’ho imparata da Cechov, che in sostanza suggeriva quanto il non detto, gli impliciti, persino i silenzi potessero essere più evocativi rispetto a lunghe e didascaliche spiegazioni. Non sto a ripetervi la solita solfa dello “Show, don’t tell” tanto in voga tra gli scrittori americani (che io adoro, peraltro), ma vi invito a dire le cose in maniera meno diretta e più suggestiva, e per farlo cito ancora Cechov: «Non dirmi che la luna splende, mostrami il riflesso della sua luce sul vetro infranto». È diverso, no?
Ma il lavoro di editing è un’operazione d’insieme, che riguarda l’intero processo di scrittura, a partire dall’incipit (ne parleremo la prossima volta, c’è molto da dire sull’argomento), passando per l’intreccio narrativo e stando attenti a creare una struttura equilibrata, non sproporzionata rispetto alle varie parti che la compongono; e c’è un mucchio di altra roba da tenere sotto controllo: stile e ritmo, punteggiatura e sintassi, il vocabolario, la caratterizzazione dei personaggi, l’attenzione ai dialoghi e la gestione di voci differenti, il tema principale e il significato, i conflitti, la coerenza e la credibilità del tutto (anche se avete inventato un mondo che prima non c’era, anche se state scrivendo un fantasy insomma: coerenza e credibilità interne alla storia, in questo caso), il climax e il finale (riguardo al finale, si tratta di un discorso a parte che affronteremo, valutando la differenza tra racconto e romanzo). Se potete, stampate sempre quello che scrivete. Lo so, può essere dispendioso e poco ecologico. Ma se volete presentare un manoscritto nel migliore modo possibile, gli errori li vedete meglio su carta che su video. Non sono io a dirvelo, ma alcune ricerche rivelano che si può perdere fino a un buon 30% leggendo sullo schermo; gli occhi, del resto, sono stati fatti per leggere sulla carta, mica su un computer o su un tablet (al massimo prendetevi un ebook reader, che non è retroilluminato e non stanca gli occhi).
Generalmente quando si parla di editing la questione corrisponde a un taglio del superfluo. Stephen King, nel suo libro On writing (terzo e ultimo che cito oggi, ma questo è veramente la “Bibbia” dello scrittore, dovete averlo per forza!), la mette giù come una sorta di formula matematica: seconda bozza = prima bozza – 10%. Dunque lui da ogni libro taglia circa il dieci per cento, che su 700 o 800 pagine non sono mica poche, fate voi il conto (senza considerare poi il lavoro dell’editor a seguire). Per far questo, serve in partenza una buona dose di autocritica. Se vi affidate a qualcun altro, bisogna sapersi rimettere in gioco, essere umili e mettere da parte l’orgoglio. Una signora mi raccontò che un’amica le aveva chiesto di leggere il suo libro e di darle un parere spassionato. Lei le riportò dopo qualche tempo il testo con una serie di annotazioni certosine, un lavoro accurato fatto di segni rossi e indicazioni varie. Quella si offese tremendamente e da allora i loro rapporti si guastarono in maniera irreparabile. Beh, con ogni probabilità l’intenzione di farsi leggere qui era solo spinta dalla voglia di ricevere degli encomi, una ricerca di conferme che non era stata mantenuta e quindi aveva procurato delusione e addirittura risentimento. Non funziona così. Fatevi leggere e attendete il giudizio con rispetto per chi ha dedicato tempo al vostro lavoro. Una persona magari non costituirà un campione attendibile, ma cinque o sei potrebbero già darvi un’idea più precisa di cosa non funziona nel libro che avete scritto.
Due cosette, per chiudere: l’editing è molto diverso dalla correzione di bozze. Quest’ultima rappresenta il passaggio prima della stampa, alla ricerca di refusi, accenti e apostrofi sbagliati, doppi spazi, roba del genere. L’editing, ormai sarà chiaro, è qualcosa che va più in profondità, che potrebbe persino modificare l’impianto strutturale del libro o intervenire sullo stile, ma comunque senza snaturarlo; il tutto in ogni caso deve essere volto al miglioramento globale dell’opera. L’altra cosa è questa: se potete, aspettate sempre che il romanzo sia finito, prima di correggere o di far correggere. Una volta a un mio corso per principianti un ragazzo esordì dicendo che aveva scritto cinque romanzi. Dopo un borbottio generale (la gente in sostanza si chiedeva cosa ci facesse lì), lui aggiunse che non ne aveva finito nemmeno uno: scriveva qualche capitolo e poi si fermava per correggere, bloccandosi o annoiandosi, per poi passare alla prossima idea. Spero che abbia cambiato metodo, nel frattempo.
Mirko Tondi
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