Nicola Catellani – F.lli marziani, dal 1947
“L’ultimo dei marziani morì qui a Pontorso tre anni fa, nel marzo 1995. È sepolto nel cimitero della pieve, assieme agli altri due. Se lei è interessato a vedere le tombe, il cancello del cimitero è sempre aperto.”
Il barista aveva proprio voglia di sfoggiare la sua competenza sugli aneddoti del paese all’unico turista presente nel bar. E Fausto s’era rassegnato ad ascoltarlo fino in fondo. Dopotutto era stato lui a provocarlo, con la domanda sul negozio.
Pontorso è un piccolo borgo di montagna, accovacciato in una stretta valletta soleggiata e chiusa, dove non si può arrivare per caso, transitando da una località all’altra. A Pontorso ci si può arrivare solo per sbaglio, o apposta. La maggioranza dei (pochi) turisti che vi giungono, Fausto compreso, lo fa – suo malgrado – nel primo modo. Anche perché a Pontorso non c’è nulla che possa attirare l’interesse: niente piste da sci, niente monumenti o edifici caratteristici, niente escursioni in località note. Solo prati, malghe e vacche; ma ci sono prati, malghe e vacche migliori in altre valli. Di conseguenza, niente alberghi, niente vita, pochi negozi, un unico bar lungo la strada centrale che costeggia il torrente, a poca distanza dal ponte che dà il nome al paese. E soprattutto niente orsi. L’unico punto di cosiddetto interesse, che a quanto pare i valligiani si tengono ben stretto, è il negozio.
Fausto non l’aveva notato subito. Aveva lasciato l’auto fuori paese, per fare quattro passi e dare comunque un’occhiata al paesello. Dieci minuti, una pasta e un caffè al bar: quel tanto che bastava per mendicare due indicazioni su una cartina stradale (la sua giaceva dimenticata a casa) per poi fare dietrofront e tornare sulla giusta via.
Il bar aveva tre tavolini all’aperto, in quel momento vuoti. Fausto vi si era seduto in attesa dell’arrivo del barista. Solo allora lo sguardo era caduto sul negozio, proprio dall’altro lato della strada, e ne era stato incuriosito.
L’edificio non aveva nulla di particolare: una solida struttura in pietra tipicamente alpina, ma del tutto priva di orpelli e balconcini. Il negozio sfoggiava una vetrina anni ’60: un grosso e robusto vetro, ripiani in metallo bianco ricoperti di carta a quadri, oggetti poggiati uno accanto all’altro, ancora chiusi nelle loro scatole. L’ingresso era la porta a fianco, che appariva sigillata da anni. Lo sguardo veniva però attratto dalla scritta sulla grande insegna in legno che sovrastava la vetrina; composta da caratteri retrò chiaramente dipinti a mano, dichiarava orgogliosamente ai passanti:F.lli marziani, dal 1947.
Il particolare che colpì Fausto fu il nome “marziani” scritto senza la lettera maiuscola, come se non fosse il cognome dei proprietari. E commise l’errore di scherzare col barista, indicando il negozio e chiedendogli: “Sono arrivati gli UFO in paese?”
Il barista non chiedeva di meglio che essere provocato a raccontare la storia dei “marziani”, per cui sorrise e attaccò.
In un assolato pomeriggio di fine giugno del 1947 un boato scosse la valle di Pontorso. Oggi lo liquideremmo accusando un aereo che supera il muro del suono, ma allora parve un vero e proprio tuono a ciel sereno. Per alcuni istanti il rumore inondò l’intera valle, e l’eco impedì di capirne la provenienza. La gente si guardò l’un l’altra preoccupata; ma siccome non accadde nient’altro, tornarono in breve alle proprie occupazioni.
Il giorno seguente comparvero i tre marziani.
Li trovò il vecchio Tusìn, buonanima, mentre all’alba portava le bestie al pascolo, lassù dove la valle si chiude. Nei pressi della roccia bianca, il cane cominciò ad abbaiare in modo strano, puntando verso il bosco. Il vecchio Tusìn lo seguì, e scoprì questi tre uomini, distesi a terra, svenuti o addormentati. Indossavano una specie di tuta da lavoro, rossa, un tessuto che sembrava una via di mezzo tra la stoffa e la plastica. Le tute erano sgualcite e lacerate in più punti, segno che durante la notte i tre dovevano aver camminato a lungo nei rovi e nella sterpaglia del bosco. I marziani erano di statura media, maschi, quasi completamente calvi, e non avevano indosso alcun segno di riconoscimento umano: niente scritte sulla tuta, neanche un piccolo crocifisso al collo, una piastrina militare o una fede al dito. Non avevano zaini né borse. Gli scarponi erano di tipo militare. Sembrava quasi che, partiti per un’escursione improvvisata, si fossero persi o fossero stati vittime di un’aggressione. Avevano ferite al volto, bruciature, escoriazioni su braccia e gambe, arrossamenti.
Il vecchio Tusìn non si fece tante domande e li soccorse con quel poco che aveva con sé, prendendo l’acqua al torrente poco distante.
Quando il primo marziano rinvenne, e vide il vecchio Tusìn, ne fu spaventato. Si ritrasse all’improvviso, mormorando parole incomprensibili. Poi comprese che l’uomo stava solo cercando di aiutarlo, e lasciò che soccorresse anche i suoi compagni. Quando si furono ripresi, il vecchio Tusìn cercò di capire chi fossero e da dove venissero, facendo loro delle domande.
I tre marziani non compresero le sue parole. Si guardarono l’un l’altro e mormorarono tra loro frasi in una lingua incomprensibile. Sembravano spaesati, e dai loro volti traspariva lo stupore per la situazione in cui si trovavano. Comunque riuscivano a stare in piedi e camminare, e comunicando a gesti seguirono il vecchio Tusìn in paese.
Li portò direttamente dal parroco, l’autorità riconosciuta nel borgo, il quale li accolse e li alloggiò provvisoriamente nella canonica della pieve. Anch’egli provò a comunicare con loro, ma senza successo.
Nei giorni seguenti, tutta Pontorso cominciò a fare la spola tra le case e la pieve, per la curiosità di vedere gli sconosciuti spuntati dal nulla. I tre sembravano sempre intimoriti e spaventati. Era evidente che avevano avuto un qualche tipo di shock, ma all’epoca che ne sapevamo? Anche il dottore del paese, più che visitarli e curare alcune escoriazioni, non riuscì a comunicare con loro.
In quegli stessi giorni, sui quotidiani e sui rotocalchi spuntò per la prima volta la notizia che in America un pilota d’aereo aveva incrociato in cielo dei misteriosi piatti volanti. In paese qualcuno non ci mise molto a fare un arbitrario due più due, incrociando la notizia col boato nella valle e l’arrivo dei tre sconosciuti: quelli non potevano che essere tre superstiti dello schianto di uno di quei piatti volanti. Fu così che in paese cominciarono a chiamarli “i marziani”.
“Ma fisicamente com’erano?”, chiese Fausto. “Voglio dire, c’era qualcosa nel loro aspetto che li distinguesse dagli esseri umani?”
“Non particolarmente. Erano di statura media, come le dicevo, e non dimostravano più di venticinque, trent’anni. I volti davano l’idea di venire dall’Est, e i nostri vecchi pensarono subito che fossero sovietici. Michele aveva gli occhi un po’ a mandorla, ma niente di più.”
“Avete poi scoperto chi erano davvero?”
“Marziani” rispose serio il barista.
Nelle settimane seguenti, i tre marziani superarono lo shock, parvero tranquillizzarsi, e provarono anche a comunicare col parroco e col dottore. Impararono qualche parola di dialetto valligiano. Tra loro però continuavano a usare il loro linguaggio. A poco a poco riuscirono a farsi comprendere da noi, e a raccontare qualcosa di sé. Non molto, a dire il vero. Non riuscivano a ricordarsi come fossero arrivati qui, e nemmeno da dove provenissero. Non ricordavano nemmeno i propri nomi, o perlomeno così dissero. Naturalmente non avevano documenti con sé. Il parroco propose di chiamarli Michele, Gabriele e Raffaele, come gli angeli della Bibbia, e quei nomi rimasero.
In verità, sia il parroco che il dottore dubitavano che i marziani avessero davvero dimenticato tutto, ma al momento lasciarono correre. Si pensò che i tre avessero qualcosa da nascondere, e non si fidassero a rivelare informazioni agli estranei. Anche quando fu proposto di portarli giù in città per una visita di controllo, i tre si rifiutarono decisamente. Il dottore suggerì di assecondarli: dopotutto non sembravano pericolosi, e forse col tempo si sarebbero ristabiliti. Nel frattempo avrebbe continuato a tenerli d’occhio, perché sospettava che una volta riprese le forze si sarebbero resi uccel di bosco, senza dare altre spiegazioni.
Ma così non fu. I tre vennero, per così dire, “adottati” da tre famiglie del paese, che li ospitarono quando il parroco stabilì di averli alloggiati a sufficienza. Era da poco finita la Seconda Guerra Mondiale, e anche Pontorso aveva avuto la sua razione di giovani caduti e dispersi. L’arrivo di quei tre venne salutato da molti come una benedizione per rimpolpare la forza lavoro del paese, che all’epoca viveva quasi interamente di agricoltura e allevamento. I marziani si adattarono di buon grado a questa sistemazione, dando il loro contributo lavorativo, e nel giro di un anno furono in grado di parlare in modo comprensibile il dialetto valligiano. Il dottore smise di preoccuparsi che fuggissero e qualcuno provvide anche a fornire loro una nuova identità, recuperando in casa i documenti di qualche disperso in guerra e comunicandone allo Stato l’improvviso “rientro” in famiglia.
Tuttavia, i tre marziani non s’integrarono mai pienamente nel paese. Sostennero sempre di non ricordarsi da dove venivano, ma tendevano a riunirsi spesso tra loro, in luoghi isolati, parlando la loro lingua quando pensavano di non essere visti né sentiti. Quando potevano, stavano per conto loro, a volte allontanandosi per lunghe escursioni sui monti.
La gente sosteneva che stessero cercando i resti della loro astronave.
Fu in quei primi anni che cominciammo a chiamarli i fratelli marziani, malgrado non si assomigliassero tra loro in modo particolare. Ma avevano il modo di fare, gli sguardi d’intesa, la complicità evidente dei fratelli vissuti a lungo insieme. Sospettammo che ormai ricordassero il loro passato, ma non volessero rivelare niente.
“Però l’astronave non la trovarono mai, vero?”, chiese Fausto.
“Se anche la trovarono non ne fecero parola con nessuno. Però, negli anni, vari ragazzini in giro per i boschi scovarono dei pezzi metallici contorti e fusi, e glieli portarono. Il pezzo più grande sarà stato trenta centimetri. I fratelli marziani sostennero sempre che erano solo pezzi di bombe esplose, tuttavia li conservarono in casa.”
“Ed erano davvero bombe?”
“Caro signore” rispose il barista, con il sorriso di chi la sa lunga “come ricordano bene i nostri vecchi, qui a Pontorso non sono maiesplose bombe, né nella Prima né nella Seconda Guerra. L’unica esplosione c’è stata il giorno prima della scoperta dei marziani.”
Nel giro di pochi anni, i fratelli marziani lasciarono le famiglie che li avevano accolti e si stabilirono in una malga fuori paese, che ristrutturarono alla bene e meglio. All’inizio si fecero vedere raramente in paese. Varie ragazze in età da marito avrebbero potuto essere interessate a frequentare qualcuno di loro, ma nessuno dei tre diede mai corda ai tentativi di avance. Le famiglie stesse cominciarono a non vedere di buon occhio eventuali approcci. I fratelli marziani erano strani.
Alla fine nessuno dei tre si sposò mai. E non si allontanarono mai dal paese.
Solo una volta il parroco, parlando con Gabriele, azzardò un paio di vaghe domande per indagare sul loro comportamento e sulla loro riservatezza. L’unica risposta che ebbe fu un borbottato “Vogliamo dare meno fastidio possibile alla gente di Pontorso”.
Tuttavia, nel ’58, qualcosa cambiò. Raffaele venne assunto come garzone di bottega in questo negozio, che ora ha l’insegna dei fratelli marziani. All’epoca era una specie di bazar, praticamente l’unico del paese, che vendeva ogni genere di merce, dalla frutta alle medicine, alla stoffa per i vestiti. In quegli anni cominciarono ad apparire sui suoi scaffali anche i primi elettrodomestici: frullatori, ferri da stiro, qualche frigorifero. L’elettricità era arrivata da poco in paese, e il negoziante aveva colto subito l’occasione. Raffaele era molto interessato a queste novità tecnologiche, ed era particolarmente bravo come elettricista, malgrado continuasse ad affermare di non ricordarsi come e dove avesse imparato il mestiere. Ma in quei tempi nessuno si preoccupava – men che meno il negoziante – di vedere un diploma prima d’assumere qualcuno: l’uomo sapeva lavorare e gli piaceva farlo, per cui ebbe il posto. E d’altra parte era un marziano, no? Avrà pur avuto l’elettricità nella sua astronave atomica!
Raffaele lavorava sodo, anche se, a sentire il padrone, di tanto in tanto si fregava dei pezzetti di scarto di materiale: qualche filo elettrico, valvole, relè; cose da poco che invece di gettare portava a casa. Se gli serviva materiale più consistente, però, lo comprava, oppure se lo faceva dare al posto di un po’ di stipendio. Nel giro di qualche anno i tre marziani accumularono in casa una gran quantità di materiale elettrico, ma nessuno sapeva cosa ne facessero.
“Volevano ricostruire la loro astronave?”, buttò là Fausto, tanto per sostenere la conversazione.
“All’inizio lo pensava tutto il paese. Ma i più acculturati sostenevano che era impossibile, che serviva anche dell’acciaio per la struttura, e non era possibile fabbricarlo in casa. E il motore atomico, poi…”
“Quindi non si è mai saputo cosa facessero?”
“Ufficialmente mai” confermò il barista e aggiunse, abbassando la voce: “Ma in realtà costruivano una radio per comunicare con Marte.”
I fratelli marziani rilevarono il bazar nel ’62, quando il proprietario andò in pensione. Il negozio non dava lavoro a tre persone, così a turno due di loro stavano in negozio, e l’altro lavorava nei campi o restava a casa a fabbricare la radio. Erano gli anni del boom economico, che giunse di riflesso anche a Pontorso: aumentarono le case, si aprirono altri negozi di alimentari e abiti, e pian piano i fratelli marziani ampliarono il settore elettrodomestici a scapito degli altri prodotti, di cui cedettero la licenza. Parevano sempre alla ricerca delle novità: se sul mercato arrivava un nuovo elettrodomestico, stai sicuro che loro ce l’avevano subito. Neanche a Milano erano così aggiornati. Ma Pontorso non era certo una piazza da grandi affari: molti elettrodomestici dei marziani facevano bella mostra di sé sugli scaffali, ma lì restavano finché non venivano restituiti al grossista. I fratelli marziani non si sono mai arricchiti con questo lavoro, neanche lontanamente; tuttavia a loro piaceva, e a quanto pare gli permetteva di sopravvivere decentemente.
Naturalmente noi sapevamo che il loro vero scopo era un altro: recuperare materiale elettrico ed elettronico sempre più moderno per riuscire a costruire la loro benedetta radio. Nessuno andava mai a casa loro, ma chi passava nelle vicinanze raccontava di strani rumori, scintille, odore di ozono, cose così. Si erano costruiti in casa un laboratorio d’elettronica, accumulando materiale nel corso degli anni. Ci sguazzavano, loro, in quelle novità tecnologiche. Il primo televisore che comparve nel negozio non lo misero mai in vendita: per un po’ lo tennero acceso in vetrina come richiamo per i clienti, ma appena arrivò il secondo modello siamo certi che smontarono il primo e lo riutilizzarono per la loro radio. Avevano fatto così anche per vari tipi di radio e giradischi.
A volte dalla loro casa uscivano lunghi rumori fruscianti e sibili che facevano gelare il sangue. Probabilmente erano suoni di un registratore, uno di quei primi esemplari a doppia bobina, o di un mangianastri, tuttavia la gente cominciò a evitare di passare di là. Qualcuno insinuò che i fratelli marziani avessero un laboratoriotipo Frankenstein, e volessero ridare vita ai morti, ma la voce non ebbe seguito.
Comunque ben pochi si stupirono quando, nel ’70, il laboratorio nella casa fu distrutto da un incendio. Una scintilla scoccata da qualche apparecchiatura, una disattenzione – chi lo sa – e le fiamme divamparono improvvise. Ci fu anche un’esplosione, dicono. Quel giorno Raffaele era nel laboratorio, e non ebbe scampo.
Da allora, i due fratelli marziani superstiti smisero di tentare di costruire la radio. Salvarono buona parte della casa, ma il laboratorio non lo ripristinarono più. Ormai avevano più o meno cinquant’anni, almeno in apparenza, e forse s’erano rassegnati a non venire più rintracciati da Marte. Probabilmente la distruzione del laboratorio e la morte di Raffaele furono gli eventi che li fecero decidere in modo definitivo. Anche perché non potevano più turnarsi al lavoro: il negozio doveva essere mandato avanti da entrambi. Proseguirono a lavorare, nel loro solito modo silenzioso e schivo, ma di certo non con l’entusiasmo di prima. Si limitarono a un commercio regolare, vario, ma – tanto per fare un esempio – non ammodernarono mai il loro negozio, che ha ancora oggi l’aria da bazar degli anni ’60.
“A giudicare dalla vetrina, pensavo che fosse chiusodagli anni ’60.”
“Macché! Proseguirono fino a metà degli anni ’80, quando morì anche Michele, d’un qualche tipo di tumore.”
L’ultimo marziano, Gabriele, proseguì ancora un poco col negozio, ma stancamente. Non volle mai assumere un aiuto, quindi gli toccò ridurre l’attività e limitare il tipo di merci. I primi personal computer gli interessarono meno degli stereo hi-fi e dei nuovi compact disc. Quando nell’89 chiuse il negozio – non volle venderlo a nessuno – andò definitivamente in pensione e si portò a casa tre apparecchi hi-fi e una notevole collezione di LP e CD che aveva accumulato negli anni. Da allora gli unici suoni che uscirono dalla sua casa furono canzonette pop e rock all’ultimo grido, che si faceva comprare in città. Era l’unico vecchio del paese a cui piacesse quella musica da giovani, ma evidentemente quelli erano i gusti dei marziani. Quando lo trovarono morto d’infarto in poltrona, lo stereo era ancora acceso, con un CD di Michael Jackson.
“Lei continua a sostenere che fossero marziani” osservò Fausto, finendo il bicchiere di analcolico che era seguito al caffè. “Ma dal suo racconto non emergono prove. E francamente mi sembra un tantino improbabile che lo fossero davvero. Sarebbe una notizia clamorosa, non le pare?”
“Capisco che per un estraneo del paese la cosa sembri strana. Naturalmente questa storia raccontata in poche parole non rende loro giustizia. Ma qui a Pontorso chi li ha conosciuti non ha mai avuto dubbi.”
“Vedo però che anche loro ci tenevano a questa diceriamarziana” concesse Fausto “dato che l’hanno usata come insegna per il negozio.” E indicò il cartello F.lli marziani, dal 1947.
Il barista ebbe un attimo d’esitazione prima di rispondere, non senza un vago imbarazzo.
“Beh, no. L’insegna ce l’abbiamo messa noi, tre anni fa. Noi, intendo, il paese. Dopo che è morto l’ultimo, il vecchio Gabriele. È… una sorta di lapide a ricordo. No, i fratelli marziani non avrebberomaimesso un’insegna come questa: come le ho detto, volevano farsi notare il meno possibile.”
Saldato il conto e traversata la strada, Fausto si fermò a osservare di sfuggita le scatole di merci in vetrina, che illustravano l’evoluzione degli elettrodomestici negli ultimi trent’anni. Erano scatole vuote, gli aveva detto il barista, messe lì solo a scopo esemplificativo. E il negozio era sempre chiuso: non era un museo, solo un memoriale. L’unica testimonianza del passaggio deifratelli marziania Pontorso. Oltre ai ricordi dei paesani. E, sì, le tombe nel cimitero.
Il campanile della pieve svettava poche centinaia di metri fuori paese, salendo lungo la via principale. Era una bella giornata, c’era ancora tempo prima di tornare a casa. Fausto s’incamminò in quella direzione.
Il cimitero era aperto, come promesso. Ben tenuto, infiorato e curato come solo certi cimiteri di montagna sanno essere, con decine di croci di legno e metallo lavorato. Le tombe dei marziani dovevano essere nell’angolo nord-est, nel terreno.
Eccole lì.
Tre lastre bianche, affiancate, identiche l’una all’altra, ciascuna con la propria lapide. Le lapidi riportavano i nomi e cognomi fittizi dei documenti italiani dei tre marziani, ma ciascuno aveva a fianco la precisazione “detto Raffaele”, “detto Michele”, “detto Gabriele”. Le date di nascita erano false, ma quelle di morte erano vere. Nessuna foto, niente fiori, solo tre piccole croci incise nel marmo.
“Ecco i cosiddetti fratelli marziani. Pace all’anima loro” pensò Fausto, osservando le tre tombe immacolate. “Tre disgraziati smemorati finiti chissà come in questo paesello subito dopo la guerra. E la gente ci ha ricamato sopra. Ecco come nascono le leggende.”
Le tre lastre nel terreno non erano interamente sgombre. Su quella centrale era stata posta una specie di scultura metallica moderna, informe, scura, alta trenta centimetri, parzialmente arrugginita e fusa.
“L’ha messa Gabriele poco prima di morire” gli aveva detto il barista. “èuno dei pezzi della loro astronave, uno di quelli ritrovati dai ragazzini del paese e che avevano conservato in casa. Uno dei pochi scampati all’incendio.”
“Sì, l’astronave” pensò divertito Fausto, chinandosi per esaminare meglio il pezzo metallico. Non sembrava nemmeno fatto di materiale pesante; era più alluminio, o qualcosa di simile.
Lo sguardo gli cadde su alcuni piccoli segni incisi sul retro. Li osservò più da vicino. Mezzo fusi ma ancora leggibili. Sì,leggibili, perché quellinon erano affatto segni alieni. Erano lettere terrestri, e per di più occidentali.
“Marziani, come no!”, commentò sorridendo. La scritta pareva uno sconosciuto marchio di fabbrica, qualcosa come Googletime.
“Sì, marziani…”, ridacchiò ancora, tornando all’auto. “Siamo quasi nel Duemila, e in questo paese non sanno neanche leggere le scritte!”
Terzo Classificato 24° Trofeo Rill 2018
Nicola Catellani
Nicola Catellani è nato nel 1968 e vive a Carpi, in provincia di Modena.
Laureato in Astronomia e giornalista pubblicista, lavora da anni in un ente pubblico.
Grande appassionato di fantascienza (possiede oltre 1500 fra romanzi e antologie), esordisce come autore a diciassette anni, pubblicando due racconti sulla fanzine di fantascienza torinese “Pulp”. Da allora ha continuato a dedicarsi soprattutto alla lettura, riprendendo a scrivere stabilmente sono negli ultimi anni.
Con il racconto “Questione di previdenza” si è classificato al terzo posto al XXIII Trofeo RiLL, nel 2017; inoltre, il suo romanzo “La Regola delle Case di Wode” è stato segnalato al IX Premio Odissea, nel 2018.
Vive da sempre nel mondo dello scautismo, dove gestisce anche corsi di formazione per gli adulti educatori.
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