Roberto Addeo – Una giornata storta
Clara era stufa. Non ne poteva più.
Che significato aveva assunto la sua vita? Ѐ così che si finisce?
L’amore tramutato in un marito e in un figlio piccolo, il lavoro di notaio tramutato in quotidianità
burocrate, l’affetto dei genitori notai tramutato in silente distacco. Tutta colpa di Pietro? Sì.
Quando lo aveva conosciuto le era sembrato un ragazzo straordinario: vitale, romantico e facoltoso; brutto sì, ma fascinoso e solerte. E poi, sotto le coperte, generoso come pochi. Sapeva trattare il suo clitoride a piacimento: lo sbaciucchiava, lo leccava e lo mordicchiava fino a farla venire, sfinita. Adesso passava di lì solo per acquietare la sua coscienza di coniuge; pochi istanti e poi la penetrazione, sempre meno durevole, sempre meno intensa.
E Mirko. Povero piccolo Mirko.
Perché i bambini devono pagare sempre su tutti?
Vengono schiaffeggiati appena nati, costretti a mangiare ciò che non desiderano, educati alla ruffianeria e al silenzio ancora prima di mettere i dentini.
Mirko non era proprio quel che si dice un bel bambino, somigliava tutto al padre, ed era nato un po’
cagionevole di salute, ma era comunque suo figlio. Perché credeva di non amarlo abbastanza?
Clara era stufa. Non ne poteva più.
«Non sento niente» disse a Pietro il quale, ansimante e sudaticcio, si scollò da lei, «scusa, non è colpa tua».
«E di chi, allora?» domandò Pietro, che intanto aveva già mentalmente rinunciato alla sua scopata
mattutina, come si rinuncia a qualsiasi cosa non sia fattibile in un arco breve di tempo(come quando
rinunciamo a farci la barba, noi uomini, quando siamo in ritardo per il lavoro). Clara non rispondeva. Piangeva lacrime di freddo silenzio febbrile. Fredda e asciutta, così si sentiva.
«Non è niente» disse Pietro, rispolverando quel po’ di empatia che aveva avuto da giovane, «adesso sono in ritardo e devo scappare. Ne parliamo stasera quando torno, va bene? Magari possiamo andare a cena fuori tutti e tre, che ne dici? E poi smettila di fare la smorfiosetta e alzati, dai, sennò fai tardi anche tu».
«Crepa!» disse Clara, anche se non era così certa di essere stata lei a pronunciare quella parola.
Una voce era fuoriuscita dalla sua bocca di soppiatto, come una raffica di vento gelido del nord che
cavalcava il caldo umido del giugno cittadino del sud, «Mi fai schifo!».
«Ho capito», rispose il marito, ancora intento ad allacciare i mocassini bianco-sporco, «un’altra delle tue giornate no. Dovresti parlarne col medico, sai? Prima erano casi sporadici, ma adesso stai così tutti i giorni. Forse dovrebbe cambiarti la cura. Vedremo. Adesso devo scappare sul serio, però. Ci vediamo stasera cara. Ti amo».
«Tu non vai da nessuna parte!».
Pietro raggelò un pochetto. Conosceva Clara da quasi vent’anni. I suoi umori pre e post mestruali, le sue patologiche antipatie, la sua destrezza nel sublimarsi il nulla, le sue ansie e la sua testardaggine, i suoi obbiettivi umani e i suoi obiettivi filo-logici; conosceva la sua fede e la sua frescura, conosceva i suoi tarli e le sue ossessioni, i suoi piccoli vizi e i rimedi che rispolverava per le sue piccole legittimazioni, ma mai e poi mai le avrebbe attribuito un tono del genere. Un imperativo del genere non si confaceva alla persona che Pietro aveva conosciuto per anni. Si aprì in lui un burrone di lagune: sentì il sangue rapire la mente e nasconderla dietro la nebbia della sua postura. Qualcosa tremava in lui, ma non lui. L’altro lui(la parte di lui non laureata, la parte di lui non medica, la parte di lui liberamente puttana).
«Devo andare. Stamattina l’ambulatorio è un inferno. Lo capisci che il mio lavoro è una missione?
Io so solo una cosa, e cioè che tu hai voglia di litigare mentre io no. Capisci cosa hai fatto prima? Mi hai tirato via come se fossi un oggetto. Credi che non conosco il nascondiglio del tuo vibratore? Non dico nulla perché ho parlato col tuo medico e non voglio essere da ostacolo alla tua terapia, ma pensi che per me sia facile vivere così?».
«Sì! Tu mi stai uccidendo!» disse Clara, asciugandosi lacrime clandestine, delle quali adesso se ne vergognava un po’, «Non te ne frega niente perché tanto più tardi ti fai quella gallina della tua assistente, la neo laureata, la giovine, la Barbara, quella che si è laureata nello stesso modo in cui sta facendo carriera con te! Sei un buffone! Una schifezza! E lei è brutta e antipatica! E non ha interessi letterari. Io non ti ho mai tradito, essere schifoso!».
Pietro si rasserenò a queste ultime parole. La solita opprimente Clara, così la riconobbe. Finalmente la giornata si era, in qualche senso, raddrizzata.
«Nemmeno io, amore mio. Amo te e Mirko al di sopra di qualsiasi cosa sopra. E smettiamola di
urlare, sennò lo svegliamo. Lasciamolo dormire un’altra mezz’oretta prima della scuola. Che dici?».
«Vieni qua» fece Clara. I suoi occhi azzurri trasmettevano energia pura e acqua limpida di ruscello. «finisci quello che stavi per finire» disse supina, con voce sensuale.
Pietro si avvicinò a lei e l’abbracciò calorosamente. Poi le inondò la bocca e le guance di sinceri baci: «Dio solo sa quanto vorrei poter fare all’amore con te con tutta la calma del mondo, ma lo sai benissimo che devo scappare. E anche tu».
«Hai ragione, scusami per prima. Vai pure, amore mio. Io rimango a casa però. Non ce la faccio oggi. Sai benissimo che ho lavorato come una matta in questi mesi; mi prendo qualche giorno di riposo. Ѐ mio diritto; lo faccio per me e per noi. Dopo accompagno Mirko a scuola e poi torno a casa a riposarmi; faccio un bagno rilassante, la ceretta, la tintura, poi vado a prendere Mirko, mangio con lui, gli faccio fare i compiti, e poi stasera andiamo fuori tutti e tre a cena. Che ne dici di una pizza?».
«Dico che ti amo e che non vedo l’ora che venga stasera». Pietro baciò con la lingua Clara, dolcemente, poi si eclissò all’esterno della sua proprietà. Aprì la macchina, la mise in moto e si diluì col nevrastenico fluire del traffico cittadino. Una personcina a modo.
Clara era stufa. Non ne poteva più.
Si ammirò nello specchio enorme costellato di sogni, lì nel soggiorno. I suoi occhi. I suoi occhi. Come poteva averli regalati a lui? I suoi occhi. I suoi occhi erano spiragli di costellazioni aliene e morenti, erano come veli caldi e fosforescenti sulla pelle della vista, azzurri come nessun cielo mai fu autorizzato ad esserlo più, azzurri come l’azzurro che ogni pittore in cuor suo applicherebbe a suoi quadri, per guadagnarne in grazia e tecnica.
Poi si sbottonò la camicia da notte, che in una frazione di secondo precipitò giù verso le caviglie, attirata dall’accondiscendenza del pavimento riscaldato. Con addosso neanche le mutandine, si ammirò gloriosa e pudica, come per la prima volta dopo anni smarriti nel vuoto, allo specchio. Che seni! Capezzoli rosei come immagini vergini, e turgidi come chiodini vivi! Seni grossi come la maestosità della sua bocca, in tono con la sua bocca; messi in quel determinato posto non per riflettere di luce propria, ma per ampliare il quadro secolare della bellezza lucente; sottolinearlo, richiamarlo al suo dovere, sempre e comunque; ammirarli senza poterli mai odiare.
Poi scese giù con lo sguardo, lungo lo specchio lucido e pulsante, sorrise e strizzò l’occhiolino a sé stessa, sorrise di nuovo, dosando le percentuali di malizia come opzioni incongrue, poi voltò le spalle con disinvolta delicatezza, e fece riflettere ciò che i poeti come Tinto Brass nominerebbero una gioia per gli occhi, sullo specchio oramai paonazzo. Non era un deretano qualunque, o solo un bel culo. Ogni natica era una fortezza di similitudini sconfinate, era un qualcosa che sarebbe durata al tempo, alla grassezza, alla magrezza, alle cicatrici, alla malattia, alla vecchiaia; era una fortezza imbattibile per i sensi più spinti, per i sensi più santi ed anche per i sensi più spenti. Quel didietro era la cura possibile a molte malattie maschili, solo che non lo si poteva somministrare tramite fiale o prescriverlo su delle ricette. Bisognava meritarselo. Come aveva potuto regalare tutto questo a Pietro?
Una strana euforia si impadronì del suo spirito, e una smania nevrotica le attraversò il bellissimo corpo, come un’oscura energia. Fece il corridoio a piedi scalzi e, ancora nuda, entrò nella stanzetta di Mirko. Egli dormiva profondamente. Clara rimase seria a guardarlo per qualche minuto. Era proprio brutto, pensò, tale e quale a suo marito. Si potrebbe dire che, in questo raro caso, il padre è sicuro e la madre no. Clara pensò alla sua vita senza di lui, e si sentì piuttosto bene. Non lo vedeva come un figlio ma come un dono di Pietro, e Pietro non aveva mai avuto gusto per i regali. Incominciò ad odiarlo gradualmente, sempre di più.
«Mamma» disse Mirko, risvegliandosi dall’oscurità, «mamma».
L’animo di Clara si ricompose a quella parola, si commosse quasi.
«Mamma, sei tutta nuda» fece Mirko, coprendosi con le mani gli occhietti vivaci, «mi vergogno, mamma!». Clara sorrise. «Ti vergogni della tua mamma?».
«Un po’ mamma, sei bellissima».
Clara recuperò la camicia da notte e la indossò, ridendo ad alta voce, poi prese il figlio in braccio e lo portò in cucina. «Adesso facciamo colazione insieme, e poi subito a scuola, ok?».
«Sì», rispose Mirko, «ma voglio la Nutella».
Clara era stufa. Non ne poteva più.
Mentre spalmava col coltello quella melma cioccolatosa sul pane, accese la radio. Lady Gaga proclamava le sue tristi parole sopra un sottofondo sdolcinato e pop. Spense subito la radio. Il sole era ormai alto e splendente; splendido come l’amarezza di tutte le donne che si sentono sole. Raggiante amarezza, certosina e stagnante.
«Mamma, mamma, dammi un altro po’di latte» disse Mirko, mentre estasiato leccava la nutella sul pane. Clara non rispose.
«Mamma, Mamma! Un altro po’di latte!».
«Come si dice, Mirko?» gli domandò la madre, guardandolo severa e buia in volto, «Come si dice?».
Il bimbo non rispondeva. Aveva pallottoline di cioccolato sulla punta del naso, sul mento e perfino sul collo. Conciato così, non era propriamente un bello spettacolo a vedersi. Le ricordò Pietro quando mangiava, o per meglio dire divorava, i maccheroni col ragù di carne. Era capace di sporcarsi perfino le sopracciglia. Era capace di fare intere conversazioni mentre il ragù ritornava nel piatto, scorrendo dagli angoli della sua grossolana e ingombrante boccaccia. Anche quando le chiese di sposarlo, in un ristorantino antico di provincia, del gelato sciolto al pistacchio strapiombava da una sua lurida gota.
«Come si dice?».
«Voglio il latte!» gridò Mirko.
«Brutto pezzettino di merda!», sbottò Clara, inferocita, «Le cose si chiedono per favore! Credi che io sia la tua serva? Solo perché sono tua madre, non merito rispetto io? Dimmi subito per favore oppure ti ammazzo piccolo cretino!».
«Scusa mammina», disse Mirko, piangendo, «papà mi ha detto che devo fare il bravo, perché tu stai poco bene. Ti prego, non dire a papà che ti ho fatta arrabbiare». Poi si allungò sul tavolo e attirò a sé il latte.
Un lampo di luce scarlatta, gialla e blu, verde e rosa, investì la cucina, in un micro momento. Il braccio di Clara si mosse rapidamente, meccanico e fulmineo. La lama ancora sporca di nutella aprì un varco nella gola del bimbo. Litri di sangue caldo schizzarono sul tavolo, sulla tovaglia, sulla radio, sulla camicia da notte. Mirko trattene l’espressione dell’urlo muto, qualche secondo, poi stramazzò a faccia sotto sul pavimento, indirizzando innumerevoli rivoli di sangue oltre la cucina, verso le altre stanze. Clara spalancò la bocca muta al massimo e lasciò cadere il coltello, il quale si conficcò misteriosamente di punta, sulla schiena del figlio oramai esangue. Il bambino non aveva detto una parola, mentre moriva. Clara non disse una parola, mentre rifletteva. Squillò il telefono.
Clara era stufa. Non ne poteva più.
Rispose al telefono. Era la madre.
«Ciao Clara, ti ho beccata giusto in tempo, vero? Volevo chiederti: perché domenica non venite tutti e tre da noi, che preparo il ragù? Pietro ne sarà felice, ah ah, ne divora almeno due piattoni ogni volta che glielo preparo, ah ah. Mi fa morire quando mangia tuo marito, ah ah, anzi, mi fa paura per quanto mangia, ah ah. Ma dove lo mette? E come sta il mio piccolo Mirko? Dai passamelo».
«Ѐ in bagno, adesso».
«Non fa niente. Digli che se fa il bravo, la nonna domenica gli prepara la torta nutella e panna, come piace a lui».
Clara attaccò il telefono. Ѐ una congiura, pensò, poi compose il 113.
«Ho ucciso il mio bambino. Venite a prendermi, abito in via»…
Poi riattaccò. Prese il cellulare e compose il numero di Pietro. Il telefono continuava a squillare. Nessuna risposta. Clara provò un altro paio di volte, senza successo. Così gli mandò un messaggio con su scritto, a lettere maiuscole: CREPA.
Poi ritornò allo specchio. Fece scivolare la camicia da notte inzuppata di sangue sul pavimento, e si guardò fissa negli occhi. Come erano belli. Ancora troppo belli. Troppo belli per lui. Prese il rossetto rosso dalla borsa e scrisse sullo specchio:
Il buon senso è una puttana che lo prende da ogni buco, ogni minuto, in qualsiasi luogo, per lo stesso prezzo. Impareremo mai, noi stitici e disperati, abitanti di un pianeta che vivrebbe meglio senza di noi, a fare a meno di noi? Non ci togliamo mai di mezzo. Aspettiamo sempre che lo faccia qualcun altro per noi.
Dall’altra parte della città, seduto alla sua scrivania, Pietro lesse il messaggio della moglie, pensando: cosa vuole adesso? Forse è meglio che non le rispondo. Non capisce che posso essere impegnato, io? Devo parlare col suo medico assolutamente; quel vampiro è buono soltanto a rubare i nostri soldi. E intanto, Clara, la sto perdendo per sempre. Stasera le porto un mazzo di rose e aggiusto tutto.
«Non ti fermare! Continua così!» ordinò a Barbara, nel frattempo, la quale se ne stava inginocchiata, succhiando e arridendo, sotto la scrivania, fatta artigianalmente in legno di mogano.
Roberto Addeo
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