San Domenico di Guzman – Andrea Zavagli
Ah, le dolcissime tentazioni della carne, tanto più fatali quando sono proibite! Con uno stile e una prosa impeccabile Andrea Zavagli ci racconta il precipizio in cui sprofonda il suo protagonista, tormentato dalla sensualità di una ragazza e di una musica che lo porterà letteralmente all’Inferno. Ma non è bellissimo finirci a volte, in fondo?
Il sole a picco non lasciava sulla strada sterrata che pochi centimetri d’ombra della sua figura. Doveva essere mezzogiorno e mezzo passato. Gli avevano assegnato la zona a sud est del paese e si stava affrettando perché voleva visitare tutte le abitazioni senza doverci ritornare. Arrivò ad una casa con un boschetto sul retro e, prima di suonare il campanello controllò il nome sulla porta: “INNOCENTE”; estrasse la busta corrispondente e aspettò che venissero ad aprire.
Lo accolse una bella ragazza bionda a piedi scalzi e una lunga camicia bianca dalla quale spuntavano belle gambe abbronzate. «Ciao! Desideri?»
«Cercavo la signora Innocente… devo lasciarle una cosa».
«Mi spiace, è fuori con mia madre per commissioni».
«Ah! Peccato… vorrà dire che ripasso» e si stava voltando per andarsene quando, all’idea di dover rifare quel lungo tragitto, chiese «Ma lei è di famiglia?».
«Sì, sono Innocente anch’io» disse lei ridendo. «Siamo qui solo per una settimana di vacanza».
«Allora potrei lasciare a lei…» disse rassicurato «È la busta con il santino di San Domenico di Guzman, il fondatore del nostro Ordine, che si festeggia l’8 agosto prossimo. C’è la tradizione che i fedeli – se lo vogliono, ovviamente – la riportino in chiesa con un’offerta per il nostro seminario».
«Bello; ma dammi del tu» disse lei «Perché intanto non entri e ti togli dal sole? Vieni, ero nel boschetto dove c’è una bella ombra e dell’aranciata».
Lui rimase fermo sulla porta e, impacciato, disse: «Non so se posso… non vorrei disturbare» ma lei in tre salti era già uscita dal salotto e scendeva le scalette del giardino.
Quando la raggiunse si era appena distesa su teli e cuscini con i quali, in quell’ombra, aveva quasi ricreato una tenda araba e con la mano gli stava facendo segno di sederle accanto.
«Mi chiamo Katy» disse, e lui, arrossendo, di rimando mormorò: «Io… Eligio».
«Che nome buffo!»
«Sai com’è; mio padre era milanista e pare che un certo padre Eligio fosse amico e confessore di Gianni Rivera. Così…»
«Non mi dire» fece lei ridendo. «Io in realtà mi chiamerei Caterina perché i miei adoravano la Caselli. Ma io ormai per tutti sono Katy» e seria aggiunse: «Col K e la Y!»
Il frinire delle cicale riempì il loro silenzio fino a che lei, sbuffando, si alzò chiedendo: «Come fai a resistere con quella camicia di lana; lo vedi che sei tutto sudato? Vieni mettiamoci un po’ a mollo qui nella piscina di zia» e infilandosi nell’acqua disse: «È piccolissima, ma se ti sdrai l’acqua arriva fino al collo e, all’inizio, è un bel refrigerio. Poi scopri che anche l’acqua è calda per il sole, ma intanto ti sei rinfrescato un po’».
Eligio si tolse la camicia di lana, unico abito civile nell’armadio del seminario, e si avvicinò timidamente al bordo della piscina. Katy lo derise: «Ma che fai, il bagno con i pantaloni? Togliteli, no! Meglio tornare a casa senza mutande che con i pantaloni bagnati…».
Vergognoso alla fine, vinto dal caldo, le dette retta ma provocò ugualmente la sua canzonatura: nel timore di avere i piedi sporchi si era infilato nell’acqua con addosso i calzini.
Come aveva detto Katy, anche in acqua cominciò a far caldo e tornarono a sdraiarsi sotto gli alberi. «Tanto, con questa canicola ci asciughiamo presto anche all’ombra» disse lei. Poi, girandosi per guardarlo negli occhi, gli chiese: «Ma in seminario sentite la musica? Che so: i Led Zeppelin, i Queen…»-
Eligio esitò prima di rispondere perché nel muoversi Katy aveva appoggiato un ginocchio sul suo inguine, proprio dove cominciava a sentire uno strano formicolio. «No, non ci è consentito. Al massimo sentiamo della musica da chiesa tipo, che so: l’Ave Maria di Schubert o, nelle ricorrenze, il Te Deum di Brukner».
«Allora senti questo. È magico» e passandogli sul corpo si sporse ad accendere il giradischi dove iniziò a girare un vinile e un suono ritmico di percussioni li avvolse. «Senti?» spiegò «Questo è ‘l’ostinato’ del tamburo, dopo entra la parte ‘accordale’».
Lui, che già ne capiva poco di musica, si limitò ad annuire, sempre più confuso dal fatto che Katy era rimasta sopra di lui e temeva che si accorgesse del gonfiore che avvertiva più in basso. A occhi chiusi, seguendo la cadenza della musica, lei iniziò a muoversi delicatamente proprio sulla parte che Eligio avrebbe voluto nascondere, ma dovette presto rendersi conto che quel movimento non era occasionale. Con l’ingresso del trombone e dei legni, anche le mosse di Katy si fecero più veloci e cambiarono direzione spostandosi su e giù. Fu con l’ingresso dell’ottavino e dei flauti che Katy, sempre a occhi chiusi, calò una mano nel mutandone di cotone di Eligio e impugnò l’origine dell’imbarazzo del seminarista. Come un’illusionista se lo fece passare sotto il suo slip e ne prese pieno possesso aumentando il ritmo delle movenze.
Eligio, sopraffatto da quelle nuove sensazioni, non apriva bocca, ma da una forte pulsione interna capì che, oltre al finale del brano eseguito da tutta l’orchestra, stava per accadere qualche cosa di inevitabile. Katy, che già aveva avuto il suo piacere, se ne accorse e, sfilatasi rapidamente, fece concludere con le mani la ‘partitura’ di Eligio che, nel frattempo, alternava ansiti liberatori a mugolii di pentimento. Lei si alzò per spegnere il giradischi e, impudicamente in piedi a gambe larghe di fronte a lui, gettò la testa all’indietro e gridò: «Grazie, Ravel! Mi hai portato in paradiso!»
Eligio, cercando di alzarsi si trovò affogato nella sua peluria e, per non cadere all’indietro, l’abbracciò trovando solo l’appiglio delle natiche. Stordito dal profumo del suo inguine, rassegnato iniziò a salmodiare: «Questo disco mi ha portato all’inferno… questo disco…. all’inferno…».
Andrea Zavagli
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