Sara Bassegato – Liberami, mio lago
Sento freddo, lame ghiacciate mi penetrano lentamente, nelle ossa, nelle narici, nelle orecchie, ma i miei occhi spalancati scorgono il sole dorato che si staglia nel cielo terso, di un azzurro così inteso da fondersi all’orizzonte con quello di quest’acqua limpida, in rapide pennellate cerulee.
Ho sempre amato questo luogo, mia nonna Sofia, la madre di mio padre, aveva una casa proprio qui, a due passi dal lido dei cappuccini e ci ho trascorso tutte le estati della mia infanzia da quando riesco a ricordare.
Le piaceva camminare, mi prendeva per mano e passeggiavamo per ore lungo il lido sassoso, le mie gambe nodose e irrequiete di bambina accanto alle sue ingrossate e rese ruvide dalle fatiche dell’età. Ricordo ancora come le guardavo con curiosità seguendo col dito i suoi capillari che tanto mi ricordavano fuochi d’artificio viola esplosi in un cielo latteo. Nonna mi raccontava della sua vita, del nonno, della guerra e di mio padre e io, senza motivo, ero felice. Adoravo stare qui, perché nessuno al mondo riusciva a capirmi come lei.
Un giorno, dopo essere state in visita ad una vicina che aveva perso il figlio, mi ritrovò raggomitolata in un angolo della mia stanza a piangere sommessamente senza sapere perché, silenziosa e spaventata. Non le servì alcuna spiegazione, mi avvicinò e mi prese sulle sue ginocchia, io la strinsi nascondendo il viso nell’incavo del suo collo e inspirando il suo profumo così familiare.
“Non sta pianzàr, putea.” mi sussurrò dolcemente accarezzandomi la nuca umida di sudore.
“Ma sto male nonna, che mi succede? Sono malata?” le chiesi con la mia voce acuta di bambina.
Nonna si scostò lievemente, mi prese il volto tra le mani e mi guardò fissa negli occhi “Malata? No mé putea, xé un don, tutta la nostra famiglia lo ha.”
Ero troppo piccola per capire, ma le sue parole furono sufficienti per rasserenarmi e persa tra le sue morbide braccia calmai la mia angoscia.
Ci vollero diversi anni perché comprendessi appieno cosa volesse dirmi, ma a quel punto, lei se ne era già andata, lasciandomi sola con questo dono che in breve divenne la mia maledizione. Era vero, potevo rendere gli altri felici, assorbire tutto il loro dolore ma ogni pena di cui alleggerivo l’animo altrui si tramutava in un peso nel mio e quella sofferenza mi scavò dentro un vuoto che non riuscii mai a colmare. Mi bastava un tocco, un abbraccio e il cruccio di uno diventava la mia croce, divenni presto solitaria, così bisognosa d’amore ma al contempo così incapace di reggerne le conseguenze, poiché l’oscurità, benché non tua, finisce inevitabilmente per macchiarti dentro. Lentamente mutai, e il dolore trasformò la mia nivea anima in pece. Ma quanto a lungo si può vivere sporchi di un male che non ci appartiene?
Un giorno avvenne quello ciò che sancì la mia sorte: mio padre ebbe un terribile incidente e se ne andò, e con lui mia madre, se non fisicamente di certo con lo spirito. Lo amava, lo amava di un sentimento profondo e assoluto e perderlo la distrusse. Passavano i giorni, le settimane e i mesi, ma lei pareva aver rinunciato alla vita divenendo il fantasma di se stessa. Non dormiva, si nutriva appena, vagava per la casa pallida e infelice, svuotata da ogni emozione, forse persino dal dolore.
Talvolta si affacciava alla porta della mia camera per osservarmi studiare, piangeva in silenzio poi si avvicinava e mi cingeva dalle spalle, respirando quegli attimi di gioia, ignara di cosa mi stesse infliggendo.
“Andrà meglio bambina mia vedrai, starò meglio e torneremo a essere una famiglia.” mi prometteva allora rinfrancata dal mio dono mentre le sue lacrime erano ormai divenute mie. Ma poi meglio non andava mai, e fu allora che capii.
Un giorno la portai sul lago a casa della nonna e poi la condussi sulla riva a passeggiare come quando ero bambina, la presi per mano in silenzio osservando il profilo dei monti blu all’orizzonte.
“Perché mi hai portato qui tesoro? Mi dispiace ma sono così stanca. Non voglio camminare.” si lamentò zoppicando sulle gambe ormai scheletriche.
“Resisti mamma per favore, solo per poco fallo per me.” la supplicai io stringendole la mano più forte.
Lei lanciò uno sguardo alle nostre mani intrecciate e un accenno di sorriso le illuminò il volto, per un istante mi parve di riconoscere in lei una scintilla della donna che era, della madre di cui tanto sentivo la mancanza, poi annuì senza ribattere e mi seguì.
“La conoscevi bene tu la nonna Sofia?” le chiesi cauta dopo qualche minuto.
Mia madre si fermò e si volse a guardami con aria sorpresa “Che strana domanda tesoro, beh non molto in effetti, era molto riservata credo. Ma ti voleva un gran bene ed era una brava donna. Forse… forse è stato bene che se ne sia andata prima che tuo padre…” quelle parole caddero nel vuoto e i suoi occhi si colmarono di lacrime che scesero silenzioso lungo le sue gote smunte.
“Questo posto me la ricorda molto.” continuai fingendo di non notare il suo pianto “Sai, ci sarebbe una questione di cui volevo parlarti da un po’.”
“Una questione?” mi fece eco lei asciugandosi il volto con la manica della maglia.
“Sì ecco, non proprio una questione, una domanda un po’ strana, forse penserai che sia matta.”
“Non essere sciocca tesoro, puoi dirmi tutto.”
“Tu cosa faresti se avessi il dono di eliminare i dolori degli altri?”
“Eliminare il dolore degli altri? Bah sarebbe una gran bella cosa piccola mia” rispose ingenuamente con un sorriso distratto.
Scossi la testa, avvertendo una leggera frustrazione nel poterle spiegare la verità “No mamma dico sul serio…Dico se potessi davvero aiutare gli altri liberandoli dal loro dolore. Come… come una sorta di magia.”
Mia madre tacque, strinse forte la mia mano, con la coda dell’occhio vidi il suo volto contorcersi in un’espressione di incertezza, forse pensava stessi scherzando ma non disse nulla.
“A che pensi mamma?” insistetti incapace di reggere quel silenzio.
“Oh, pensavo a tuo padre”
“A papà?”
“Sì, vedi, anche lui mi fece questa domanda tempo fa. Strano no? Tuo padre pensava sempre agli altri lo sai? Forse tu non lo hai conosciuto in quel modo, ma credo sia per questo che mi sono innamorata di lui. Lui sapeva rendere felici le persone. Lo invidiavo molto per questo.”
“Perché lo invidiavi? Non ti sembrava che soffrisse?”
Mia madre mi guardò sconcertata “Soffrire? Ma no tesoro, rendere felice gli altri era la sua gioia, la sua… non saprei dire. Era quasi fosse una missione. Era bello, lui era così forte tesoro.”
“Già.” bisbigliai mentre in me si stava facendo largo la consapevolezza che stavo aspettando “Lo era.”
“Credo che gli assomigli molto, avete la stessa luce.”
Non quanto vorrei pensai malinconica.
“Mamma, qualsiasi cosa accada, ricordati solo quanto ti voglio bene ok?” non riuscii a celare il tono supplichevole nella mia voce.
“Tesoro, così mi spaventi! Che ti prende?”
A quel punto mi fermai, e la strinsi in un abbraccio, forte e intenso, come da anni ormai non facevo più. Lei giacque inerme tra le mie braccia, respirando nuove boccate di serenità. Ogni attimo di quel contatto si trasformava per lei in un attimo di felicità, in un sospiro di sollievo, in una piccola luce in fondo al tunnel, finché d’un tratto scoppiò a ridere come non accadeva da mesi.
Si scostò lievemente da me e io mi accasciai al suolo avvertendo i graffi dei sassi appuntiti sulla pelle, mia madre mi guardò sorpresa, si inginocchiò accanto a me e assunse un’espressione preoccupata.
“Bambina mia ma che ti prende? Ti senti male?” mi chiese accarezzandomi la guancia rigata delle lacrime.
MI sforzai di sorridere e scossi la testa “Sto bene” mentii io “però portami a casa ora per favore.”
Sulla via del ritorno rise a lungo, leggera come fosse rinata, per lei fu come risvegliarsi da un lungo incubo, incubo che io conoscevo bene perché ora era anche il mio.
Le restai accanto per ore, incantata da quella nuova lei che avevo così a lungo atteso. Volevo vederla felice un’ultima volta benché quel nuovo peso sul cuore mi stesse già abbattendo. Fu magico, lei correva lieta per casa, cantando e ballando canzoni della sua infanzia, ridendo scioccamente senza apparenti motivi, poi, dopo lunghe ore, cadde addormentata, con le labbra piegate in una mezzaluna di pace.
Io mi accucciai accanto a lei, inebriandomi del suo profumo e del suo calore materno rincorrendo un lontano sogno di bambina bisognosa. Assaporai quegli attimi con tutta la forza di cui ero capace, eppure, mio malgrado, sapevo che non potevo restare, poiché il suo dolore, insieme a tutto il dolore delle persone che avevano fatto parte della mia vita ora era mio, mi stava divorando, mi stava rubando la luce e in quel nuovo buio non ero più io.
Ed è per questo che ora sono qui, tra queste acque gelide che ho tanto amato, questo lago ha visto la genesi della persona che sono stata e ora, mi accompagnerà in questo addio, catartico e felice.
Il mio corpo dovrà soccombere ma c’è solo gioia in me poiché finalmente, sarò libera, pura, limpida come queste acque.
Papà, nonna, aspettatemi, presto sarò con voi.
Sara Bessegato
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