Sergio Calzone – Storiacce editoriali – La scrittura come terapia
Pablo Neruda scriveva: “confesso che ho vissuto”; l’estensore delle presenti note, infinitamente e irrimediabilmente nano rispetto al cantore di Matilde Urrutia, si limiterà ad ammettere: “confesso che ho fatto l’editor”!
In questa veste (disgraziata quante altre mai), ho avuto la ventura di imbattermi centinaia di volte nell’ispido cactus della “scrittura come terapia”, cioè, sia detto subito e senza reticenza, non come il prodotto di una progettazione letteraria nata da una profonda conoscenza della (guarda un po’!) Letteratura e da una sicura padronanza sintattico-grammaticale, ma dall’esigenza di esprimere su tastiera determinati “vissuti”, sette ottavi dei quali dominati dall’aloe, il fiore del dolore…
Ora, che tutti abbiano la libertà di tenere un diario sul quale riversare l’empito del proprio strazio o del proprio gaudio, inframmezzandovi, se è proprio necessario, un crisantemo o una margherita stecchiti, è cosa tanto ovvia, da non meritare, qui, una conferma e da una fonte, la mia, così pateticamente trascurabile.
Ma che sia nel proprio segreto diario, per la miseria! Che cosa hanno fatto di male editori, editor ed, eventualmente, lettori, per essere coinvolti in terapie che, da private e individuali, vorrebbero a tutti i costi diventare pubbliche e possibilmente premiate e vendute a milioni di copie? Se il vostro vicino di casa vi esponesse in un monologo equivalente a duecento pagine di libro stampato le proprie, personali angustie, mostrandovi la propria casa addobbata di rose nere e di lobelie, non sareste forse assolti da qualsiasi giudice di tribunale se lo colpiste ripetutamente con un trinciapolli?
Tali sono gli “scrittori” in terapia [nota: oltre le duecento pagine, si può parlare di “terapia intensiva”].
Eppure l’Italia (e forse non soltanto l’Italia, ma al dolore di un editor basta il prodotto nazionale lordo: rassicuro i miei eventuali lettori) rigurgita letteralmente di questa tipologia umana.
E non parliamo, poi, dei “poeti”! Se il narratore nuoce con la quantità, il poeta “auto-terapeuta” uccide con l’audacia assassina delle sue metafore: darne esempi sarebbe oltremodo utile ma ecco che diventa impossibile per due motivi, uno essendo il desiderio di chi scrive di non farsi insultare su Facebook o su altri consimili strumenti di distruzione di massa, l’altro (motivo) essendo il pietoso intento di non raccapricciare i miei dodici lettori (sono ottimista!) con figure retoriche al limite del cinema horror ma anche dell’horror vacui, poiché i soggetti interessati sono in genere anche prolissi e non tralasciano, di sé, la minima piega o piaga dolente, fino a sfiorare la corona di fiori che si appoggia sulle bare.
Viene in mente il passo di un libro famoso quanto poco, oggi, letto. Eccolo: «La trovata del romanziere fu d’aver sostituito a quelle parti impenetrabili all’anima una pari quantità di parti immateriali, che la nostra anima cioè può assimilare. (…), allora eccolo scatenare in noi per un’ora tutti i beni e tutti i mali possibili; nella vita impiegheremmo anni a conoscerne alcuni, e i più intensi non ci sarebbero mai rivelati, perché la lentezza del loro determinarsi ce ne toglie la percezione».
Penseranno gli “scrittori” in terapia di aver trovato (posto che abbiano inteso ciò che è riportato nel paragrafo precedente) una pezza d’appoggio ai loro tiramenti autoreferenziali? Sciagurati! Chi ha scritto ciò si chiamava Marcel Proust (Dalla parte di Swann, Parte prima)! Siete voi della stessa cultura e caratura letteraria e della stessa padronanza sintattico-grammaticale di quel signore? E perché, allora, non sapete riconoscere un vocativo, quando ne scrivete uno? E perché la parte più “malata” di voi non ha mai sentito parlare del congiuntivo? E perché avete letto, come massimo sforzo intellettuale della vostra vita, Fabio Volo e/o (più o che e) Chiara Gamberale? E perché Borges, Calvino, Sartre, Boll, Woolf, Tanizaki, Robbe-Grillet, Tomasi di Lampedusa, Quignard, Buzzati e un centinaio di altri e altre dello stesso calibro sono per voi nomi noti (magari non proprio tutti, eh?, confessate, bricconcelli) ma come ricordi sbiaditi di scuola, tanto che ostentate, appunto, I fiori del male, come se li aveste davvero letti fino in fondo, e non, questi autori, come maestri vivi e vibranti?
Tornate alle vostre superbe ruine, all’opere imbelli dell’arse officine: il mondo non sa che farsene delle vostre terapie, così come giustamente non è interessato all’aspirina di Caio o all’antibiotico di Sempronio, oppure al decotto di malva di Tizio.
Per farla breve: scrittori che date vita a testi privi di ogni logica grammaticale e sintattica per esprimere la soma del vostro malessere, negando, poi, l’opportunità degli interventi di un editor che, obtorto collo, è stato invischiato nel dare senso alle vostre frasi, lasciate perdere e prendete piuttosto un buon diuretico, che so?, un decotto di sambuco (ma consiglierei, nei casi di recidiva, un lassativo come più consono al prodotto finale dei vostri sforzi)!
Sergio Calzone
Foto da: https://www.thenews.com.pk/tns/detail/565529-male-gaze-literature
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